INNOVAZIONE
Autore: Massimiliano Talarico
ASSINEWS 380– Dicembre
Negli anni Duemila avevamo un’idea romantica di internet. Ci sembrava uno spazio libero, una frontiera aperta dove ognuno poteva reinventarsi. Bastava un nickname, una connessione e un po’ di curiosità.
Poi, lentamente, la magia si è trasformata in routine. Oggi ogni click, ogni foto, ogni spostamento è un dato. E ogni dato è un frammento di noi che finisce dentro un gigantesco sistema di intelligenza artificiale. Viviamo immersi in una rete invisibile di algoritmi che ci osservano, ci interpretano, e spesso decidono per noi.
Quando apriamo una mappa, quando chiediamo a un assistente vocale il meteo, quando scorriamo i social. Non sono più soltanto applicazioni: sono occhi digitali, cervelli che imparano da miliardi di comportamenti umani.
E allora la domanda diventa inevitabile: siamo davanti alla fine della privacy, o all’inizio di una nuova forma di trasparenza condivisa? Tutto è cominciato in modo quasi innocente. I primi social network ci chiedevano di condividere le nostre passioni, i nostri pensieri, le nostre foto. Nessuno immaginava che dietro ogni gesto si sarebbe costruito un profilo psicologico, economico e sociale di ciascuno di noi.
Oggi la quantità di dati che ogni persona genera è vertiginosa: secondo stime recenti, un utente medio di internet lascia ogni giorno centinaia di tracce digitali — geolocalizzazioni, cronologia di navigazione, registri vocali, acquisti online, like e perfino il tempo che impiega a leggere un post. Tutto questo diventa materia prima per l’AI.
I modelli di intelligenza artificiale apprendono non solo da testi e immagini, ma anche dai nostri comportamenti. Ogni volta che una piattaforma “impara” a riconoscere le nostre abitudini, diventa più precisa nel suggerire ciò che vogliamo prima ancora che lo chiediamo.
È un patto implicito: noi cediamo la nostra privacy in cambio di comodità. E finché tutto funziona bene, non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma dietro questa apparente efficienza c’è una domanda scomoda: quanto controllo abbiamo davvero sui nostri dati?
Non paghiamo i social network con i soldi, ma con l’attenzione. Non paghiamo l’AI con l’abbonamento, ma con i nostri comportamenti. Ogni volta che acconsentiamo ai “cookie” o autorizziamo un’app a usare la posizione, stiamo firmando un piccolo contratto di sorveglianza.
Il concetto stesso di “privacy” è cambiato. Non si tratta più di tenere segreti i propri dati, ma di capire chi li usa, come e perché.
E qui entra in gioco l’intelligenza artificiale: un sistema che non solo elabora i dati, ma li collega, li interpreta e li trasforma in decisioni automatizzate.
La banca che valuta la nostra affidabilità creditizia, l’assicurazione che calcola il premio, la piattaforma che decide quali notizie mostrarci: tutte queste scelte sono sempre più guidate da modelli di AI che apprendono dai nostri comportamenti passati.
La domanda allora non è se siamo osservati, lo siamo, e da anni ma se siamo ancora padroni di ciò che viene osservato.
Ogni epoca ha avuto il suo modo di controllare. Nel Novecento il potere si esercitava con la forza, le leggi, la censura. Nel XXI secolo, il controllo passa attraverso i dati. Invece di costringerci, il potere ci osserva e ci guida dolcemente, con notifiche, suggerimenti e previsioni personalizzate. È una sorveglianza che non impone, ma seduce.
L’intelligenza artificiale è l’infrastruttura perfetta per questo tipo di controllo. Non serve un poliziotto che ci segue per strada: basta un algoritmo che sa cosa cercheremo su Google domani mattina.
Viene anche chiamato surveillance capitalism, capitalismo della sorveglianza: un’economia fondata sull’estrazione e la monetizzazione dei comportamenti umani. Non vendiamo solo tempo e lavoro, ma anche i nostri desideri.
Eppure, ridurre tutto a una visione distopica sarebbe ingiusto. La stessa tecnologia che può manipolare può anche liberare se usata in modo trasparente e condiviso.
C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui l’intelligenza artificiale ci osserva: ci imita, ci interpreta, ci restituisce un’immagine di noi stessi. A volte precisa, altre deformata.
Gli algoritmi non “capiscono” nel senso umano del termine, ma apprendono correlazioni statistiche. Se i dati sono distorti, anche la visione che l’AI ha del mondo sarà distorta.
Un esempio emblematico è quello dei sistemi di riconoscimento facciale, che in passato hanno mostrato bias razziali e di genere perché addestrati su dataset non rappresentativi.
In altre parole, l’AI riflette i nostri pregiudizi. Quando guardiamo dentro una macchina intelligente, vediamo noi stessi amplificati, accelerati spesso semplificati.
E qui si apre un tema enorme: la trasparenza. Non possiamo chiedere all’AI di essere giusta, se non sappiamo come decide. Non possiamo parlare di fiducia, se i suoi processi restano opachi. L’idea di una “trasparenza algoritmica” può sembrare utopica, ma è già un tema concreto.
L’Unione Europea, con l’AI Act, sta introducendo regole che obbligano i produttori di sistemi di intelligenza artificiale a dichiarare come e su quali dati vengono addestrati i loro modelli.
È un primo passo verso una cultura della responsabilità. Perché la privacy, oggi, non si difende solo chiudendo le porte, ma aprendo le finestre giuste: sapere chi usa i nostri dati, con quali finalità, e poterlo verificare.
Alcuni esperti parlano di data trust, fondi fiduciari in cui i cittadini depositano i propri dati in modo controllato, ricevendo in cambio trasparenza e magari anche benefici economici.
Altri immaginano piattaforme decentralizzate dove ogni persona può scegliere a chi concedere le proprie informazioni, e per quale scopo.
In fondo, la vera libertà digitale non è l’invisibilità, ma la consapevolezza. Non sparire dal radar, ma sapere quando ci siamo e perché.
Un tempo accettare i termini di servizio era un gesto automatico. Oggi dovrebbe diventare un atto politico. Capire il valore dei propri dati significa capire il proprio ruolo nel nuovo ecosistema digitale.
Ogni utente è, in un certo senso, un fornitore di materia prima per l’AI. Ma può diventare anche un soggetto attivo, capace di orientare lo sviluppo tecnologico.
Serve una nuova alfabetizzazione: non solo sapere usare un’app, ma sapere cosa fa quell’app con noi. Questa è la differenza tra il consumatore e il cittadino digitale.
Le scuole, le aziende e i media dovrebbero insegnare questa consapevolezza come una competenza di base, al pari della lettura o del pensiero critico. Perché non si tratta più solo di privacy individuale, ma di equilibrio di potere collettivo.
Un segnale incoraggiante arriva proprio dagli utenti. Negli ultimi anni si è diffusa una nuova sensibilità: sempre più persone chiedono di sapere come funzionano gli algoritmi che influenzano la loro vita.
Ci sono progetti indipendenti che “auditano” i modelli di AI, ricercatori che analizzano i dataset per scoprire bias, e perfino artisti che trasformano i dati personali in opere per denunciare la loro esposizione.
La trasparenza, insomma, non è più solo un tema tecnico: è diventata una forma di cultura. Un modo per riconquistare un minimo di controllo su un sistema che sembrava inaccessibile.
E forse è proprio qui che nasce la speranza: nell’idea che la tecnologia possa essere governata dal basso, non subita dall’alto.
L’intelligenza artificiale non è solo un occhio che scruta, ma può anche essere uno scudo. Gli stessi strumenti di machine learning che analizzano i nostri comportamenti possono servire a rilevare frodi, proteggere identità digitali, segnalare minacce informatiche.
Esistono già sistemi di AI “etica” progettati per verificare il rispetto della privacy e bloccare l’uso improprio dei dati sensibili.
Anche nel campo della salute, per esempio, l’AI può aiutare a scoprire malattie senza condividere informazioni personali, grazie a tecniche come il federated learning (apprendimento federato), che permette ai modelli di imparare senza spostare i dati dai dispositivi degli utenti.
Non è quindi la tecnologia a essere pericolosa di per sé, ma il modo in cui la usiamo. Il problema non è l’occhio che osserva, ma chi decide dove guardare e con quali regole.
C’è un’altra forma di privacy, meno discussa ma altrettanto preziosa: quella dell’attenzione. Viviamo in un mondo in cui tutto compete per catturare il nostro sguardo e gli algoritmi sono progettati per ottimizzare proprio questo. Difendere la propria attenzione significa difendere il proprio tempo, la propria capacità di scelta, la propria identità. È un gesto semplice, ma radicale: scegliere quando essere visibili e quando no.
Forse la vera sfida del futuro non sarà nascondersi dai dati, ma imparare a dosare la presenza. Essere presenti nel digitale con consapevolezza, come si è presenti in una conversazione reale.
L’intelligenza artificiale ci osserva, sì. Ma il suo sguardo può essere anche uno specchio in cui riconoscerci meglio. La privacy come la intendevamo, chiudere la porta e restare invisibili, forse è finita, ma al suo posto può nascere una trasparenza consapevole, dove le persone non sono oggetti di analisi, bensì soggetti di scelta.
Non dobbiamo rinunciare alla tecnologia, ma pretendere che sia leggibile, verificabile, equa. La libertà, nell’era dell’AI, non è scomparire dai dati, ma sapere cosa i dati dicono di noi.
Se saremo capaci di questa maturità collettiva, allora sì forse non sarà la fine della privacy. Sarà soltanto l’inizio di una nuova forma di fiducia.
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