PREVIDENZA

Autore: Maria Elisa Scipioni e Alberto Cauzzi
ASSINEWS 378 – Ottobre 2025

Una scelta da compiere consapevolmente

Con questo articolo vogliamo intraprendere un percorso di approfondimento relativo al secondo pilastro del sistema pensionistico italiano, ossia quello relativo alla previdenza complementare.

Ciò che lo caratterizza da sempre è la sua adesione libera e volontaria: il lavoratore può decidere se versare o meno contributi a una forma pensionistica di secondo pilastro durante il corso della sua vita lavorativa.

Il TFR dei lavoratori dipendenti costituisce una delle fonti di finanziamento principale della previdenza complementare, insieme al contributo soggettivo e, ove previsto, dalla contrattazione collettiva nazionale, al contributo del datore di lavoro. Vediamo insieme perciò nello specifico cos’è il TFR, come si matura e la relativa disciplina normativa relativa alla sua destinazione.

Il TFR, acronimo di Trattamento di Fine Rapporto, più comunemente conosciuto come liquidazione o buonuscita, è un istituto giuridico previsto dall’art. 2120 del codice civile che consente al lavoratore subordinato di ricevere, alla cessazione di un determinato rapporto di lavoro, una somma proporzionata agli anni di servizio prestati presso l’azienda.

Il TFR è nato come una quota di retribuzione con natura differita, che in fase di accumulo rappresenta una fonte di finanziamento per l’azienda e contemporaneamente una formula di risparmio per il lavoratore.

Quindi, per definizione, il TFR non spetta a tutti i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, liberi professionisti, etc.), ma solo al mondo dei lavoratori dipendenti sia del settore privato che di quello pubblico con sostanziali differenze tra le due tipologie di lavoratori.

Il TFR fu disciplinato per la prima volta dal nostro legislatore nel 1982 con la Legge n. 297, quando fece la sua comparsa a sostituzione dell’indennità di anzianità. Fu esteso in sostituzione del TFS (trattamento di fine servizio) al pubblico impiego per gli assunti dal 2001.

Se ne tornò a parlare poi nel 2005 col decreto legislativo n. 252, attraverso il quale venne attuata una vera e propria riforma del TFR con l’intento di incentivare l’adesione alla previdenza complementare.

Come matura
Il TFR rappresenta una delle voci principali della busta paga e matura durante tutta la durata del rapporto lavorativo, sebbene sia erogato solo alla sua conclusione.
Il Trattamento di Fine Rapporto si accumula annualmente ed è calcolato come una quota della retribuzione annua lorda del dipendente.
La retribuzione lorda è comprensiva dello stipendio base, eventuali premi, bonus e altre indennità percepite.

Ogni anno il datore di lavoro, in funzione della scelta del dipendente, segue una delle seguenti 3 opzioni:
1. Versa la somma dovuta alla formula di previdenza complementare individuata dal dipendente.
2. Nel caso di aziende con più di 50 dipendenti e per i dipendenti che non hanno aderito alla previdenza complementare, versa la somma dell’accantonamento all’apposito fondo di garanzia istituito presso INPS.
3. Per le restanti aziende con meno di 50 dipendenti, l’accantonamento rimane di competenza contabile dell’azienda e sarà in liquidazione solo con il termine del rapporto di lavoro o in caso di anticipi.

La quota di TFR accantonata annualmente è pari al 6,91% della retribuzione utile. In primo luogo occorre determinare la retribuzione annua lorda, ossia la RAL alla quale applicare l’aliquota.
Quanto così ottenuto viene aggiunto al TFR maturato l’anno precedente, che prima di effettuare la somma, va adeguato all’inflazione, con un indice apposito pari al tasso fisso dell’1,5% sommato al 75% dell’indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati ISTAT.

Sulle rivalutazioni dei fondi per il TFR è dovuta annualmente un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi del 17%. Il versamento dell’imposta è a carico del datore di lavoro, se il TFR matura in azienda.

Ipotizzando un tasso di inflazione del 3% annuo la rivalutazione effettiva netta sarà di: (1,5% + 3% * 75%) * (100% – 17%) = (1,5% + 2,25%) * 83% = 3,11%. Ovviamente, l’imposta sostitutiva non è dovuta per quanti convogliano l’accantonamento ad una forma pensionistica complementare.

Il TFR dove lo metto?
Come precedentemente detto, l’accantonamento TFR dei lavoratori dipendenti può costituire una delle fonti di maggiore rilievo nel finanziamento della previdenza complementare.

Scegliere dove destinare il trattamento di fine rapporto che maturerà durante il lavoro è un’azione richiesta ad ogni dipendente al momento della firma del contratto.

Dal 2007, infatti, è necessario effettuare una scelta in tal senso: destinare il TFR a un fondo pensione di secondo pilastro (fondo pensione ad adesione collettiva) o del terzo pilastro (piano integrativo pensionistico ad adesione individuale), oppure mantenerlo in azienda. Questa scelta può essere esercitata in maniera esplicita, attraverso una dichiarazione, ovvero in maniera tacita attraverso il cosiddetto meccanismo del silenzio assenso.

Chi è al primo impiego nel settore privato ha sei mesi di tempo dalla firma del contratto per indicare la propria preferenza. Compilando l’apposto modulo, il modello TFR2, decide di spostarlo alla previdenza complementare.

Tale scelta sarà irrevocabile. Mentre, nel caso in cui decida di lasciarlo in azienda non dovrà fare nulla e potrà in qualsiasi momento tornare indietro sui suoi passi. Chi cambia lavoro, invece, mantiene la scelta effettuata nel precedente contratto, a meno che non ne esprima una diversa entro sei mesi.

Cosa conviene di più?
Non esiste una risposta universale: la scelta va fatta in base alle proprie esigenze, all’età, al livello di reddito e agli obiettivi di lungo termine.

Lasciare il TFR in azienda è senz’altro la strada più immediata: non comporta costi aggiuntivi e non richiede azioni da parte del dipendente. Il TFR viene liquidato al termine di ogni rapporto di lavoro, ma può essere ricevuto parzialmente, attraverso un anticipo legato alla necessità di sostenere spese sanitarie di carattere straordinario, spese di acquisto della prima casa, o spese da sostenere durante i congedi per maternità, o per formazione.

L’anticipo (al massimo del 70%) può essere richiesto solo una volta nel corso del rapporto di lavoro, e trascorsi almeno 8 anni di servizio. Optare, invece, per la previdenza complementare consente di investire attivamente il proprio TFR, con la possibilità di integrare la somma con il budget che uno intende destinare al welfare.

Anche aderendo alla previdenza complementare è possibile accedere al capitale maturato prima della pensione, richiedendo le somme nella seguente misura:
fino al 75% per le spese mediche, in ogni momento;
fino al 75% per acquisto o ristrutturazione della prima casa, dopo 8 anni;
fino al 30% senza nessun particolare motivo, dopo 8 anni. Inoltre, come abbiamo visto pocanzi, il TFR in azienda ha una rivalutazione fissa dell’1,5% annuo più il 75% dell’inflazione, mentre in un fondo pensione il rendimento dipende dai mercati finanziari e dal tipo di fondo scelto.

In genere, maggiore è la permanenza nel fondo, più alte sono le probabilità di ottenere un rendimento superiore rispetto alla rivalutazione aziendale. Il ragionamento sui rendimenti al netto dei costi che si possono ottenere dalla previdenza complementare è relativamente complesso e richiede una certa conoscenza del trade off tra rischio e prestazione per i vari orizzonti temporali.

A titolo di esempio, il raffronto delle varie formule di investimento poco rischiose, mediamente tali oppure crescita nei fondi negoziali, dimostra che la rivalutazione è vantaggiosa se attentamente scelta e monitorata.

Trend decennale (2015-2024): Fondi negoziali COMPARTI GARANTITI: Rendimento medio annuo composto del 0,7%. Fondi negoziali TUTTI i COMPARTI: Rendimento medio annuo composto del 2,34%. Fondi negoziali COMPARTI CRESCITA: Rendimento medio annuo composto del 4,55%. TFR: rivalutazione media annua del 2,4%.

Come viene tassato
Anche in questo caso bisogna distinguere se stiamo parlando del TFR lasciato in azienda ovvero versato al fondo pensione. In linea generale la tassazione è minore nel caso dei fondi pensione, questo perché già con la riforma del 2005, a 10 anni dall’entrata in vigore del sistema di calcolo contributivo, si iniziava a intravedere un futuro poco roseo per le nuove generazioni in pensione, così lo Stato ha tentato di incentivare l’adesione alla previdenza complementare prevedendo appunto un regime fiscale agevolato.

Ciò che da sempre infatti ha caratterizzato quest’ultima è il regime fiscale maggiormente favorevole a essa applicato.

Di fatto, nelle tre fasi di partecipazione a una qualunque forma di previdenza integrativa è possibile distinguere altrettante fasi di fiscalità del risparmio pensionistico volontario:

deduzione dei contributi (soggettivo e datoriale, no TFR): i contributi versati sono deducibili dal reddito complessivo nel limite massimo definito per legge di 5.164,57 euro. Si tratta però di un’esenzione temporanea dalla tassazione dell’iscritto, poiché su quelle stesse somme dedotte l’imposizione è rinviata al momento dell’erogazione delle prestazioni;

tassazione dei rendimenti: la legge di stabilità 2015 ha comportato un aumento dell’imposta sostitutiva dall’11,5% al 20% sul risultato di gestione dei fondi di previdenza integrativa;

tassazione delle prestazioni: alle prestazioni pensionistiche in capitale e a quelle erogate in forma di rendita si applica una ritenuta alla fonte a titolo di imposta con aliquota del 15%, aliquota ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni annualità eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari qualora l’aderente non abbia esercitato il diritto di riscatto totale della posizione individuale, con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali.

È pertanto ovvio che maggiore sarà la permanenza al fondo pensione e minore sarà la tassazione. Lo stesso meccanismo di tassazione viene applicato anche agli anticipi erogati per motivi di eccezionale gravità come malattie, disoccupazione prolungata (dopo 12 mesi si può riscattare fino a un 50% e dopo 48 mesi anche il 100% della posizione) o per invalidità permanente/ morte; mentre nel caso di anticipi per altri motivi, come l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa, o la perdita di lavoro improvvisa (sia per licenziamento che per dimissioni) la tassazione è pari al 23%.

Il TFR lasciato in azienda al momento dell’erogazione subisce invece una tassazione cosiddetta separata. Quando viene liquidato, viene tassato in base all’aliquota media IRPEF degli ultimi 5 anni. Quindi, in base al reddito dichiarato dal lavoratore, l’aliquota può andare da un minimo del 23% a un massimo di circa 43% per una RAL di 100.000 €.

La differenza della tassazione sul montante disponibile al pensionamento, con un differenziale variabile dall’8% al 24%, è la leva di maggiore impatto, a fianco dal rendimento finanziario, a favore della previdenza complementare.

Tutte queste considerazioni pocanzi esposte tentano di fare chiarezza in un quadro normativo decisamente complicato e articolato.
Farraginoso a tal punto da rendere quasi incomprensibile la scelta possibile. Soprattutto aver chiara la visione d’insieme di tutti gli effetti correlati che le varie tipologie di destinazione possono avere sulla redditività dell’accantonamento TFR.

Ne è testimone il tasso di adesione alla previdenza complementare che al palo di poco più di 1/3 della forza lavoro. Per prendere delle decisioni consapevoli su queste scelte, che possono essere assai diverse da caso a caso, il metodo più adeguato è quello di una attenta analisi quantitativa delle aspettative.

Esempio
A titolo esemplificativo di analisi di questa natura riportiamo un caso di confronto che mostra i vantaggi dell’una e dell’altra alternativa.
Consideriamo un neo assunto trentenne che si trova di fronte alla scelta di dover decidere se mantenere il TFR in azienda ovvero conferirlo al fondo pensione1.

Abbiamo ipotizzato lo stesso rendimento lordo nominale sia per il TFR in azienda sia per l’investimento al fondo pensione, pari al 3%. Se guardassimo i rendimenti maturati al termine del piano di accumulo, al netto dei costi e della tassazione, sembrerebbe che il TFR lasciato in azienda renda di più.

Questo proprio perché a differenza dell’investimento al fondo pensione che presenta dei costi, lasciare il TFR in azienda non prevede ovviamente l’abbattimento per via dei costi di gestione. Sotto il profilo della tassazione, invece, si nota come il regime fiscale agevolato che viene applicato alla previdenza complementare porti a una netta differenza a vantaggio appunto del fondo pensione.

Difatti, nell’esempio l’aliquota applicata alla prestazione del fondo pensione (sia essa in rendita che in capitale) è pari all’aliquota minima del 9% essendo gli anni di partecipazione al fondo superiori al 15-esimo anno, mentre l’erogazione del TFR sarà soggetta all’imposta sui redditi per le persone fisiche.

Quindi, in sostanza, soprattutto su un orizzonte temporale molto ampio come quello dell’esempio, non è semplice decidere di optare per una o per l’altra soluzione. Si tratta di una scelta personale da fare sulla base delle proprie propensioni finanziarie ed aspettative per il futuro. Lasciarlo in azienda, come già detto, rappresenta la scelta più semplice, ma può, soprattutto in caso di momenti di bassa inflazione, avere dei rendimenti ridotti.

Il TFR al fondo pensione può offrire una maggiore diversificazione del rischio finanziario, di contro però si potrebbero sostenere dei costi anche molto onerosi. Per tali ragioni vanno prese in considerazione tutte le alternative possibili valutando tutti gli aspetti che ne intercorrono.


1 Neo assunto, classe 1995. Reddito circa 28.000 euro con crescita dell’1,5% reale. Pensionamento a 70 anni. Inflazione al 2%. Costo di gestione linea di investimento pari a 0,47%. Tassazione del fondo pensione ipotizzata al 20% senza distinzione tra titoli di stato e azionari.


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