Selezione di notizie assicurative da quotidiani nazionali ed internazionali

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Le imprese sono sempre meno puntuali nei pagamenti dei fornitori e a risentirne sono le casse aziendali, con un aumento della richiesta di capitale circolante come mai si era visto dal 2008. Ma mentre le imprese europee hanno agito come “banca invisibile”, fornendo circa 11 miliardi di euro di credito commerciale; le aziende statunitensi hanno utilizzato la liquidità liberata per premiare gli azionisti. E l’Italia? Si inserisce pienamente in questo quadro e le aziende sono alle prese con l’esigenza di un più alto fabbisogno di capitale circolante. È lo scenario delineato da Allianz Trade, società specializzata nell’assicurazione dei crediti commerciali, che ha diffuso l’ultimo rapporto sui tempi medi di incasso di un credito (o il cosiddetto Dso, ossia Days sales outstanding) e sul fabbisogno di capitale circolante (cioè il Working capital requirements, Wcr)
Allarme ambientale nel Vecchio continente. Un terzo delle imprese europee (e il 29% di quelle italiane) ha ammesso il rischio di non riuscire a rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni previste per il 2030. E’ quanto emerso dall’inchiesta condotta da Centrica Business Solutions su 500 aziende Ue, tra cui un gruppo significativo di imprese italiane appartenenti a settori ad alta intensità energetica, come manifatturiero, sanità e ospitalità. Stando ai risultati dell’indagine, il 46% delle imprese europee (e il 51% di quelle italiane) ha indicato nei costi il principale ostacolo verso il raggiungimento del Net zero (equilibrio tra emissioni prodotte e rimosse) all’interno di un labirinto energetico in cui le aziende si trovano ad affrontare una molteplicità di sfide interconnesse: dalla volatilità dei prezzi, all’incertezza normativa, dalle limitazioni infrastrutturali, alla necessità di bilanciare gli obiettivi di sostenibilità con le esigenze di competitività economica.
Cambia aspetto la mappa delle assunzioni agevolate. Infatti, il decreto Coesione (decreto legge n. 60/2024 convertito con legge n. 95/2024) ha riscritto diversi incentivi già operativi (giovani e donne, per esempio) e ne ha introdotti di nuovi (nei settori strategici, per esempio), cambiando la geografia delle opportunità a favore dei datori di lavoro per risparmiare nell’assumere nuova manodopera. Si tratta di incentivi specifici rivolti a chi arruola giovani (under35), donne, disabili e disoccupati o senza lavoro, in genere di tipo contributivo consistenti, cioè, di uno sgravio (una riduzione) dell’aliquota contributiva dovuta per i nuovi assunti dal datore di lavoro. Incentivi che possono cumularsi col super-bonus fiscale, operativo nell’anno 2024 e prorogato dalla Manovra 2025 per il triennio 2025/2027, che consente ai datori di lavoro la riduzione delle tasse mediante la maggiorazione figurativa del costo del lavoro relativa al personale neo-assunto. La variegata offerta di agevolazioni ha suggerito questo Inserto, allo scopo di offrire a consulenti e ad aziende una bussola di orientamento, anche in vista del primo appuntamento con gli sconti: dal corrente mese di giugno, infatti, i datori di lavoro possono materialmente fruire dei nuovi bonus (giovani e donne) tramite l’UniEmens (denuncia contributiva mensile), da presentare in via telematica all’Inps entro il prossimo 31 luglio. Inoltre, sugli UniEmens relativi ai tre mesi di giugno, luglio e agosto potranno recuperare l’incentivo arretrato, se spettante, per le assunzioni effettuate da settembre 2024 fino a maggio 2025.
L’emergenza abitativa in Italia, soprattutto caratterizzata dal caro-affitti nelle principali città, incide anche sull’organizzazione del lavoro e sulle strategie di attrazione e fidelizzazione del personale. Pertanto, sia le aziende sia le parti sociali stanno sempre più rispondendo con una varietà di strumenti che vanno dal welfare abitativo al supporto economico diretto, passando per la rinegoziazione dei tempi e luoghi di lavoro. È quanto emerge dall’analisi condotta da Adapt-Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali che ha mappato le principali politiche aziendali e contrattuali messe in campo per affrontare questa nuova priorità che si inserisce in un contesto generale in cui nelle Pmi, come evidenziato dall’indagine condotta da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro in collaborazione con Pluxee, sono in aumento le politiche di welfare in favore dei dipendenti. Welfare che, come conferma lo studio realizzato dall’associazione Ricerca Felicità, incide in maniera significativa sul livello di benessere dei lavoratori.

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Non è facile raccogliere il testimone da un’eminenza grigia come Enrico Cuccia e da un banchiere tutto d’un pezzo come Vincenzo Maranghi, colui che nell’aprile 2003, all’apice dello scontro con l’Unicredit e con la Banca di Roma su Generali, fece sapere ai suoi interlocutori di voler lasciare, rinunciando alla buonuscita ma chiedendo che Mediobanca non subisse pregiudizi dalla sua posizione. Alessandro Profumo e Cesare Geronzi da quello scontro uscirono vincitori e dovettero decidere a chi affidare la Mediobanca del futuro: i due nomi sul tavolo erano quelli dei due più stretti collaboratori di Maranghi, Alberto Nagel e Renato Pagliaro. Profumo scelse Nagel come capoazienda mentre Pagliaro diventerà in seguito presidente, e da lì è cominciata una nuova storia.
Venticinque anni fa moriva il banchiere che dal dopoguerra e per mezzo secolo ha guidato e reso grande Mediobanca. Sempre mantenendo le distanze da Roma. Se in una prima fase storica il ruolo di Cuccia è certamente quello di alleggerire il più possibile il capitalismo privato italiano dal giogo dell’ingerenza politica, spesso suscitando l’irritazione proprio di quella politica che attraverso le tre Bin è per lungo tempo l’azionista di controllo di Mediobanca, arriva però un punto in cui la politica — Romano Prodi è allora presidente dell’Iri — gli chiede conto di quella repubblica autonoma fondata a Piazzetta Cuccia. A far da detonatore il progetto di privatizzazione di Mediobanca, che secondo il suo ad avrebbe significato la rinuncia al controllo delle tre Bin, con una quota della loro partecipazione associata a un patto di sindacato e un’altra quota “sterilizzata” fuori da esso. Il progetto non passa, anche grazie a un articolo di Cesare Merzagora ospitato proprio daRepubblica, e nel 1985 Cuccia non viene riconfermato in cda proprio dalle tre Bin. Resterà comunque in consiglio di Mediobanca, facendosi eleggere come rappresentante della banca d’affari francese Lazard, anch’essa nel capitale e lavorerà ancora per la privatizzazione, che effettivamente si raggiungerà nel 1988. Una vittoria che adesso, mentre politica e capitali si alleano per riprovare l’assalto a Mediobanca, appare lontanissima.
Caro consulente, quanto mi costi? Rispondere a questa domanda è sempre più difficile. Le reti e le banche stanno diversificando sempre più le loro commissioni, applicandole in una pluralità di modi diversi. C’è chi le calcola in un modo, chi in un altro, chi in modo semplice e chi complesso. Sempre, ovviamente, con il consenso del cliente stesso. Al quale resta la consolazione di poter vedere il costo totale, in valore assoluto e in percentuale, sul documento contabile di fine anno. Chi vende prodotti finanziari apprezza la diversificazione delle modalità di prelievo della commissione annuale. Certo, una volta era tutto più semplice: all’inizio il cliente non sapeva neppure che stava pagando una commissione. Lo faceva (e lo fa ancora, nella maggior parte dei casi) grazie al fatto che il consulente finanziario ottiene dai fondi che vende una “retrocessione” (inducement), ovvero un bonus. Prima nessuno sapeva quanto intascava la rete di vendita, mentre negli ultimi anni diverse normative Ue hanno obbligato gli operatori a dichiarare l’insieme dei costi. Resta da vedere quanti risparmiatori vadano a vedere questa voce. Anche perché, come ha ricordato l’ad di Banca Mediolanum Massimo Doris a margine di un recente convegno di Assoreti, «alla gente importa di più sapere se ha guadagnato piuttosto che la commissione che ha pagato».
Non conta più soltanto cosa offrire, ma soprattutto come farlo. In un contesto sempre più complesso, segnato da incertezze macroeconomiche e da una concorrenza crescente che mette sotto pressione i margini, il private banking è chiamato a ripensare modalità e strumenti di relazione con la clientela. Un ruolo chiave in questa trasformazione lo gioca l’innovazione tecnologica, che abilita nuovi modelli di consulenza, più personalizzati, agili e omnicanale. A spingere il cambiamento è anche il passaggio generazionale di grandi patrimoni, che impone ai consulenti la capacità di dialogare con interlocutori diversi per età, cultura finanziaria, linguaggio e strumenti digitali utilizzati nella quotidianità. Secondo la 29esima edizione del World Wealth Report del Capgemini Research Institute, il mondo si appresta a entrare in una nuova era della gestione patrimoniale: circa 83.500 miliardi di dollari cambieranno proprietario entro il 2040, nel più grande trasferimento di ricchezza intergenerazionale mai registrato. Una transizione epocale non solo per l’entità delle somme coinvolte, ma per la rottura culturale che comporta. Già entro il 2030, il 30% degli high net worth individual (Hnwi, persone con un patrimonio investibile elevato, solitamente oltre un milione di dollari) avrà ricevuto un’eredità; la quota salirà al 63% nel 2035 e all’84% nel 2040. A cambiare, però, non sarà solo la titolarità dei capitali, ma anche il sistema di valori e di aspettative su cui oggi si regge l’industria del private banking.
L’ evoluzione dei mercati, l’aumento della volatilità e la diversificazione delle esigenze dei clienti con elevati patrimoni stanno trasformando il modo in cui le banche costruiscono e gestiscono la relazione consulenziale. A cambiare non è solo l’approccio agli investimenti, ma anche il modello stesso di servizio: sempre più integrato, basato su analisi predittive, strumenti digitali e una visione olistica del patrimonio.

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«L’Europa abbia il coraggio di rimuovere quei dazi interni che si è autoimposta». Il 27 maggio Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria ha rimproverato alla Ue di aver alzato barriere commerciali che ostacolano gli scambi e bloccano la crescita. La premier cita lo studio del Fondo monetario internazionale: sullo scambio delle merci è come se ci fosse una tariffa media del 45%, e per i servizi si arriva addirittura al 110%. Lo studio spiega anche il perché: la libera circolazione di beni e servizi in Europa non è stata completata. Questo però Meloni non lo dice, e quindi se il nostro mercato è disseminato di ostacoli le colpe sono di Bruxelles. Vediamo come stanno le cose.

Da questa mattina, lunedì 23, l’offerta pubblica di scambio di Unicredit su Banco Bpm si rimette in moto e ci saranno trenta giorni di tempo per aderire o meno alla proposta. Che però, in tutti questi mesi, non è cambiata e risulta ancora fortemente a sconto rispetto ai valori di mercato. E questo, al di là dei successi amministrativi, è il grande limite dell’operazione. Orcel sostiene che il titolo Banco Bpm ha beneficiato dell’interesse di Unicredit e che è per questo che si è rivalutato in Borsa. Giuseppe Castagna, amministratore delegato di Banco Bpm, rivendica invece risultati che mai la banca milanese di Piazza Meda aveva ottenuto, grazie a un modello di business al servizio delle pmi e delle famiglie dei territori in cui opera e a un forte legame con la sua base azionaria, ricompensata con un rendimento cedolare superiore all’11 per cento.
Dopo il rinvio al 25 settembre dell’assemblea di Mediobanca per l’approvazione dell’Ops su Banca Generali il quadro dell’operazione che porterà alla nascita di un grande polo del risparmio italiano con 210 miliardi di masse si è congelato. Ed è probabile che il contesto resti immutato anche questa settimana. Per quattro sedute consecutive il titolo Banca Generali è stato sotto pressione e solo venerdì ha segnato un rialzo. L’azione della banca guidata da Gian Mario Mossa ha continuato a essere a sconto (di 3,5 euro venerdì) rispetto all’offerta di Piazzetta Cuccia e continua a essere legata a quella della triestina Generali che ha la maggioranza di Banca Generali e che in Borsa ha segnato un andamento piatto.
Generali, guidata da Philippe Donnet, resta la compagnia leader. Nel 2024 ha raccolto circa 32,3 miliardi in premi, segnando un incremento del 19,3%. Un risultato che le garantisce una quota di mercato superiore al 19%, mantenendo salda la leadership. Dietro Trieste, il secondo posto è occupato da Intesa San Paolo Assicurazioni che ha totalizzato una raccolta di 19,6 miliardi. Il gruppo ha registrato un aumento del 18,3%, con una quota che si attesta attorno all’11,7%. Il podio è chiuso da Allianz con quasi 19 miliardi di premi. Tra le prime cinque assicurazioni troviamo anche Poste Vita con una crescita dell’1,8%. Infine, Unipol, presieduta da Carlo Cimbri, raccoglie poco meno di 15,5 miliardi con il 9,2%. Si avvicina, ad esempio, la vendita di Prima e sarebbe la francese Axa, assistita da Deutsche Bank, in pole position per l’acquisizione. In corsa ma più defilata, Allianz.
Nlla macrocategoria «Finanza & Assicurazioni» figurano ben due plurivincitori. Il primo nome è l’istituto della famiglia Doris, Mediolanum: il servizio clienti di Banca Mediolanum ottiene infatti il maggior gradimento dei consumatori nelle categorie «Gestione del risparmio» (8,34) — davanti a FinecoBank e Fideuram — e «Banche» (8,27, meglio di Ing e Sella), mentre con Mediolanum Assicurazioni (8,66) guadagna la prima piazza in «Assicurazioni (online)», precedendo altre realtà come Hdi Assicurazioni, Groupama Assicurazioni, Zurich e Verti. Altri ottimi punteggi sono quelli di Unipol (8,64) nei «Fondi pensionistici» e di Bbva (8,59) in «Banche (online)»
Le auto elettriche sono cresciute del 70% nei primi cinque mesi dell’anno, ma il mercato nel suo complesso langue. È una contraddizione apparente, perché in termini numerici l’aumento delle vetture a batterie incide ancora poco, parliamo di 36.891 immatricolazioni, a fronte di 727.429 unità vendute da gennaio a maggio (fonte Unrae): rappresentano il 5,1% di quota mercato, non abbastanza nell’ottica di una crescita che dovrebbe portarci a dimezzare le emissioni inquinanti degli autoveicoli entro il 2030. Si vendono meglio le ibride, che costituiscono il 44,7% del mercato, mentre il modello alla spina più venduto a maggio, la Tesla Model Y, non figura nemmeno nella classifica delle 50 auto più acquistate.