1.Introduzione
Negli ultimi anni, la disciplina della distribuzione assicurativa è stata oggetto di rilevanti modifiche normative, principalmente dovute alla necessità di attuare nel nostro ordinamento la direttiva Ue 2016/97 (cosiddetta Idd, Insurance distribution directive). Questo approfondimento, rivolgendosi soprattutto agli operatori del settore assicurativo, ma non solo, ha, quindi, l’obiettivo di illustrare le principali novità legislative e giurisprudenziali in materia di prodotti di investimento assicurativi (i cosiddetti Ibips, Insurance based investment product). A partire dal quadro normativo di riferimento, con particolare attenzione al riparto di competenza tra Ivass e Consob, il contributo passa in rassegna la nuova figura della consulenza obbligatoria in materia di Ibips complessi, mostrando le conseguenze che gli operatori del settore potrebbero dover affrontare in caso di distribuzione di prodotti non adeguati al profilo di rischio e alle esigenze del cliente.
Da ultimo, si rileva come gli interventi del legislatore nazionale ed europeo abbiano spinto la giurisprudenza italiana a rivalutare il proprio orientamento in ordine alla natura giuridica e alla validità delle cosiddette polizze linked, ossia le polizze vita collegate a fondi comuni di investimento o ad altri indici esposti alle oscillazioni del mercato finanziario. Particolare attenzione sarà, quindi, dedicata all’analisi della giurisprudenza più recente, mostrando come quest’ultima si stia man mano allineando alla posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea, che da tempo afferma la validità di dette polizze anche se non prevedono una garanzia di restituzione del capitale investito.
2.Prodotti di investimento assicurativi
L’espressione “investimento assicurativo” sembra accostare due concetti apparentemente inconciliabili, posto che: (i) l’investimento rappresenta l’assunzione di un rischio con l’attesa di ricavare un vantaggio futuro; (ii) l’assicurazione, diversamente, consiste in una forma di tutela dalle conseguenze pregiudizievoli che potrebbero derivare da un rischio determinato. In altri termini, mentre “investire” significa assumersi volontariamente un rischio, “assicurarsi” significa mettersi al riparo da un rischio e dagli eventuali effetti dannosi che da esso possano generarsi.
Questa rigida distinzione è stata da molti anni superata dalla prassi assicurativa con l’introduzione di polizze in cui il valore delle prestazioni assicurate dipende da un’entità di riferimento variabile, circostanza che aggiunge un elemento di imponderabilità tipico degli strumenti di investimento.
Come vedremo, si suole distinguere tra polizze Unit linked, ove l’entità di riferimento è costituita dal valore delle quote di fondi comuni di investimento, e Index linked, ove l’entità di riferimento è costituita da un altro indice (per es. un indice di borsa).
Il legislatore nazionale ha fissato la definizione di “prodotto di investimento assicurativo” nel dlgs 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: di seguito, Tuf) e nel dlgs 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private: di seguito, Cap). In entrambi, per prodotto di investimento assicurativo si intende “un prodotto ai sensi dell’articolo 4, numero 2), del regolamento (Ue) n. 1286/2014” (art. 1, comma 1, lett. w-bis.3) del Tuf e art. 1, comma 1, lett. ss-bis) del Cap). Ossia il cosiddetto regolamento “Priip” (Packaged retail investment and insurance-based investments products), nel quale si formula la nozione europea di “Ibip” (Insurance based investment product).
Secondo tale nozione, costituisce un prodotto di investimento assicurativo (o Ibip) quel “prodotto assicurativo che presenta una scadenza o un valore di riscatto e in cui tale scadenza o valore di riscatto è esposto in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato”.
Se ne desume che sono due gli elementi principali che caratterizzano un Ibip: (i) l’appartenenza al genere dei prodotti assicurativi; (ii) l’esposizione alle fluttuazioni di mercato (cfr. infra §§ 2.1. e 2.2).
2.1.Prodotti assicurativi
La definizione di “prodotto assicurativo” è data dall’art. 1, comma 1, lett. ss), Cap, a mente del quale sono prodotti assicurativi “tutti i contratti emessi da imprese di assicurazione nell’esercizio delle attività rientranti nei rami vita o nei rami danni come definiti all’articolo 2”.
Il contratto di assicurazione è regolato dal Codice civile (c.c.) e dal Codice delle assicurazioni private (Cap): il primo si pone come apparato normativo sussidiario, sempre applicabile laddove non sia stato disposto diversamente dal secondo; stabilisce, infatti, l’art. 165 Cap che “fermo restando quanto diversamente disposto dal presente codice, i contratti di assicurazione, coassicurazione e riassicurazione rimangono disciplinati dalle norme del codice civile”.
Il Codice civile definisce l’assicurazione come “il contratto col quale l’assicuratore, verso pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno a esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana” (art. 1882). Si delineano quindi due tipi fondamentali di assicurazione: quella contro i danni, con la quale l’assicuratore si obbliga a rifondere all’assicurato i danni di eventuali sinistri; e quella sulla vita, con la quale l’assicuratore si obbliga a pagare una somma, capitale o rendita, al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. Questa summa divisio è alla base della classificazione per ramo dei contratti di assicurazione, adottata anche dall’art. 2 Cap (si veda la tabella A).
Fatta questa doverosa premessa normativa, come anticipato, il primo elemento per identificare un Ibip è la sua qualità di prodotto assicurativo, da intendersi quale contratto di assicurazione stipulato da un’impresa di assicurazione nell’esercizio delle attività rientranti nei rami vita o danni.
I contratti di assicurazione sono innumerevoli, ma è lo stesso legislatore a individuare una serie di prodotti che, pur rientrando nel genere “prodotto assicurativo” o comunque nell’ambito previdenziale, non devono considerarsi prodotti di investimento assicurativi (Ibips). Tanto il Tuf, quanto il Cap, escludono dalla nozione di Ibip le seguenti categorie di prodotti:
1) i prodotti assicurativi non vita elencati all’allegato I della direttiva 2009/138/Ce;
2) i contratti assicurativi vita, qualora le prestazioni previste dal contratto siano dovute soltanto in caso di decesso o per incapacità dovuta a lesione, malattia o disabilità;
3) i prodotti pensionistici che, ai sensi del diritto nazionale, sono riconosciuti come aventi lo scopo precipuo di offrire all’investitore un reddito durante la pensione e che consentono all’investitore di godere di determinati vantaggi;
4) i regimi pensionistici aziendali o professionali ufficialmente riconosciuti che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2003/41/Ce o della direttiva 2009/138/Ce;
5) i singoli prodotti pensionistici per i quali il diritto nazionale richiede un contributo finanziario del datore di lavoro e nei quali il lavoratore o il datore di lavoro non può scegliere il fornitore o il prodotto pensionistico.
Tenendo conto delle elencate eccezioni, il campo si restringe ai prodotti del ramo vita (si veda la colonna 1, Tabella A), i quali, tuttavia, non possono considerarsi sic et simpliciter prodotti d’investimento assicurativo: la natura di prodotto assicurativo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per ottenere la qualifica di Ibip. È quindi doveroso vagliare l’esposizione alle fluttuazioni di mercato, ossia il secondo presupposto della nozione di Ibip.
2.2.Esposizione alle fluttuazioni di mercato
Il secondo elemento che caratterizza un Ibip è l’esposizione, totale o parziale, diretta o indiretta, alle fluttuazioni di mercato. Quali assicurazioni del ramo vita integrano questo requisito? In primo luogo, le assicurazioni del Ramo III, ossia le assicurazioni, di cui ai rami I e II (si veda colonna 1, Tabella A), le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni (fondi comuni di investimento) ovvero a indici o ad altri valori di riferimento. In secondo luogo, le polizze del Ramo V (si veda colonna 1, Tabella A), ossia operazioni di capitalizzazione.
In questa sede ci occuperemo esclusivamente della prima categoria, comprensiva delle cosiddette Polizze Index e Unit linked (letteralmente: “collegate a un indice” e “collegate a un complesso”). Come abbiamo già anticipato, in questo tipo di polizze il valore della prestazione assicurata è una variabile dipendente da un’entità di riferimento preliminarmente individuata dalle parti che sottoscrivono il contratto. Ora, poiché le polizze linked sono collegate all’andamento di un indice (azionario, obbligazionario o misto) ovvero di un fondo comune costituito da azioni o obbligazioni (o anche da entrambe), esse sono in grado di offrire rendimenti molto più elevati rispetto alle tradizionali polizze vita. Come noto, tuttavia, rendimento e rischio sono grandezze direttamente proporzionali. Se, da un lato, le polizze linked offrono più ampi margini di guadagno, dall’altro espongono il contraente della polizza alle fluttuazioni dei mercati finanziari e, quindi, anche al rischio di vedere decurtato l’intero capitale investito. Si tratta quindi di prodotti assicurativi di carattere speculativo, nei quali è marcatamente accentuata la componente finanziaria.
3.Distribuzione dei prodotti assicurativi
Al fine di garantire una maggiore tutela agli assicurati, l’attività di distribuzione dei prodotti assicurativi viene dettagliatamente regolata dalla legge. In particolare, oltre a riservare tale attività ai soggetti dotati di determinati requisiti e iscritti in un apposito registro, la legge contempla puntuali regole di comportamento che devono essere rispettate dai distributori di prodotti assicurativi.
Ebbene, gli Ibips costituiscono una species del genus “prodotto assicurativo”, sicché vengono sottoposti alla medesima disciplina con riferimento all’attività di distribuzione: quella contenuta nel Titolo IX del Cap Come vedremo meglio, ciò è stato confermato normativamente dall’art. 25-ter Tuf, secondo cui “la distribuzione dei prodotti d’investimento assicurativi è disciplinata dalle disposizioni di cui al Titolo IX del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, e dalla normativa europea direttamente applicabile”.
La distribuzione assicurativa e riassicurativa consiste nelle attività elencate dall’art. 106 Cap. Essa può essere esercitata per mezzo di intermediari iscritti al Rui (Registro unico intermediari) oppure direttamente dalle imprese di assicurazione e riassicurazione: ecco perché ora la legge parla in generale di “distribuzione” e non solo di “intermediazione”.
Il Rui è suddiviso in sezioni: ciascun intermediario deve iscriversi in quella a esso relativa; non è consentita la contemporanea iscrizione dello stesso intermediario in più sezioni del registro. L’attività di distribuzione, inoltre, può essere altresì svolta da soggetti aventi residenza o sede legale in altro Stato dell’Unione europea in regime di stabilimento o di libera prestazione di servizi (artt. 108, comma 3, e 116 Cap).
3.1.Principio del doppio binario
Da tempo si discute in ordine all’applicabilità di talune disposizioni del Tuf all’attività di distribuzione dei prodotti di investimento assicurativi (Ibips): si tratta principalmente degli artt. 21 e 23 del Tuf, che impongono rispettivamente canoni di professionalità e diligenza in capo all’intermediario e requisiti di forma dei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento.
A tal proposito, l’art. 25-bis, comma 1, Tuf, come modificato dal dlgs 29 dicembre 2006, n. 303 (cosiddetto decreto Pinza), prevedeva che “gli articoli 21 e 23 si applicano alla sottoscrizione e al collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione”; laddove per prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione s’intendeva, come già ricordato, le polizze dei Rami III e V (dunque anche le citate Polizze linked).
Il decreto Pinza aveva quindi esteso l’applicabilità degli artt. 21 e 23 Tuf ai prodotti che oggi definiamo “di investimento assicurativo” (Ibips). Ciononostante, si è consolidato un orientamento giurisprudenziale (Tribunale Bergamo, Sez. IV, Sent. 23/07/2021, n. 1419; Trib. Ivrea, Sent. 17/08/ 2020, n. 644; Trib. Brescia, Sent. 11/02/2016, n. 441) secondo cui l’estensione prevista dall’art. 25-bis, comma 1, Tuf si applica esclusivamente quando l’attività di distribuzione è svolta dalle imprese di assicurazione e dai cosiddetti soggetti abilitati definiti dal Tuf all’art. 1, comma 1, lett. r).
Tale interpretazione viene giustificata, anzitutto, sulla scorta del tenore letterale dell’art. 25-bis, comma 2, Tuf (vecchia formulazione), a mente del quale “la Consob esercita sui soggetti abilitati e sulle imprese di assicurazione i poteri di vigilanza regolamentare, informativa e ispettivi previsti” dalle norme Tuf. Poiché gli agenti e i broker assicurativi non rientrano nella categoria dei “soggetti abilitati” ai sensi del Tuf e non sono sottoposti alla vigilanza della Consob, a essi, si sostiene, non potrà estendersi la disciplina prevista dagli artt. 21 e 23 Tuf Un’ulteriore conferma si trae dalla disciplina dell’Offerta fuori sede: l’art. 30, comma 9, Tuf, nella previgente formulazione, dispone, infatti, che “il presente articolo si applica anche ai prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari e, limitatamente ai soggetti abilitati, ai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione”. In forza di tale disposizione, la disciplina dell’Offerta fuori sede recata dall’art. 30 Tuf trova applicazione solo nel caso in cui il prodotto di investimento assicurativo venga distribuito da determinati intermediari, ossia i “soggetti abilitati” ai sensi del Tuf.
La tesi esposta va sotto il nome di “principio del doppio binario”, giacché delinea un regime normativo in cui, per la distribuzione del medesimo prodotto (Ibip), si applicano discipline diverse in ragione dei soggetti coinvolti nella fase distributiva.
Oggi il regime del doppio binario è messo seriamente in discussione dalle modifiche normative intervenute con il dlgs 21 maggio 2018, n. 68, attuativo della direttiva (Ue) 2016/97 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 gennaio 2016, relativa alla distribuzione assicurativa (cosiddetta Idd, Insurance Distribution Directive). Il decreto ha, infatti, modificato l’art. 25-bis Tuf e introdotto l’art. 25-ter, il quale dispone che la distribuzione dei prodotti di investimento assicurativi è disciplinata integralmente dal Cap (Titolo IX) e dalla normativa europea direttamente applicabile, a prescindere da chi sia il soggetto distributore. Parallelamente, il dlgs n. 165/2019 ha modificato il comma 9 dell’art. 30 Tuf in materia di Offerta fuori sede, la cui disciplina viene ora dichiarata applicabile “ai depositi strutturati e ai prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari” (non più anche “ai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione”, come previsto nella formulazione precedente).
La conclusione è che il regime del doppio binario deve considerarsi definitivamente tramontato, e con esso anche il periodo, considerevole, in cui le regole del Tuf hanno svolto una funzione suppletiva in favore delle polizze assicurative aventi carattere finanziario; polizze che, oggi, trovano la loro disciplina unicamente all’interno del Cap.
4.Vigilanza sull’attività assicurativa
L’attività assicurativa è sottoposta a vigilanza pubblica. Il Codice delle assicurazioni private individua due scopi della vigilanza: in primo luogo, l’adeguata protezione degli assicurati e degli aventi diritto alle prestazioni assicurate; in secondo luogo, la stabilità del sistema e dei mercati finanziari.
Il sistema dei controlli pubblici sul settore assicurativo era originariamente affidato, in via esclusiva, al ministero dell’industria del commercio e dell’artigianato (l’attuale ministero dello sviluppo economico, di seguito Mise). Oggi le funzioni di controllo attribuite al Mise sono di carattere residuale, sebbene i poteri lasciati in capo all’organo politico siano tali da consentire anche l’esclusione dal mercato dell’impresa assicurativa.
Come noto, la svolta in materia di vigilanza assicurativa si è avuta con la legge 12 agosto 1982, n. 576 che ha istituito l’Isvap (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo). Con il dl 6 luglio 2012, n. 95, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 135 all’Isvap è succeduta l’Ivass (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni).
Con l’emanazione del Codice delle assicurazioni private all’Ivass è stato conferito, oltre ai tradizionali poteri di vigilanza, anche un potere di normazione secondaria, ossia la possibilità di emanare regolamenti di settore. E infatti l’art. 5 Cap, dopo aver affermato che “l’Ivass svolge le funzioni di vigilanza sul settore assicurativo mediante l’esercizio dei poteri di natura autorizzativa, prescrittiva, accertativa, cautelare e repressiva previsti dalle disposizioni del presente codice”, aggiunge che “l’Ivass adotta ogni regolamento necessario per la sana e prudente gestione delle imprese o per la trasparenza e la correttezza dei comportamenti dei soggetti vigilati e allo stesso fine rende nota ogni utile raccomandazione o interpretazione”.
Di particolare interesse, nel campo della distribuzione dei prodotti d’investimento assicurativi, è il ruolo svolto dalla Consob, che, ai sensi dell’art. 25-ter, comma 2, Tuf, è chiamata ad esercitare il potere regolamentare e i poteri di vigilanza sui soggetti abilitati alla distribuzione assicurativa di cui all’articolo 1, comma 1, lettera w-bis). La norma delinea un chiaro riparto di competenza tra Ivass e Consob, ribadito anche dall’art. 121-quater del Cap, che in materia di vigilanza sulla distribuzione dei prodotti di investimento assicurativi fa salve le competenze attribuite dal Tuf alla Consob.
Non si deve credere, tuttavia, che simili disposizioni siano tese a preservare il richiamato regime del doppio binario (§3.1). A conforto della teoria secondo cui il legislatore abbia inteso superare detto regime, si può richiamare l’art. 25-ter, comma 2-bis, Tuf, il quale dispone che “con riferimento ai prodotti di investimento assicurativi, il potere di cui all’articolo 6, comma 2 [ossia il potere regolamentare, ndr], è esercitato dalla Consob, sentita l’Ivass, in modo da garantire uniformità alla disciplina applicabile alla vendita dei prodotti d’investimento assicurativo a prescindere dal canale distributivo e la coerenza e l’efficacia complessiva del sistema di vigilanza sui prodotti di investimento assicurativi, nonché il rispetto della normativa europea direttamente applicabile”.
Pur mantenendo una distinzione in ordine alla vigilanza e ai relativi poteri sulla base del soggetto che distribuisce l’Ibip, il legislatore esprime a chiare lettere l’intento che le fonti normative secondarie in questo campo siano omogenee. Così come omogenea, del resto, è la disciplina primaria, in forza del perentorio art. 25-ter, comma 1, Tuf che rende applicabile a tutti gli Ibips, indipendentemente dal soggetto distributore, la disciplina del Titolo IX del Cap.
5.Consulenza sui prodotti assicurativi
Ai sensi dell’art. 106 Cap, nell’attività di distribuzione assicurativa rientra anche la consulenza sui prodotti assicurativi. L’art. 1, comma 1, lett. m-ter) Cap definisce la consulenza come “l’attività consistente nel fornire raccomandazioni personalizzate a un cliente, su richiesta dello stesso o su iniziativa del distributore, in relazione a uno o più contratti di assicurazione”. Questa che abbiamo richiamato viene definita “consulenza base” o “consulenza non indipendente”. Essa può svolgersi anche basandosi su un’analisi imparziale e personale: in tal caso, l’intermediario assicurativo deve fondare la consulenza “sull’analisi di un numero sufficiente di contratti di assicurazione disponibili sul mercato, che gli consenta di formulare una raccomandazione personalizzata, secondo criteri professionali, in merito al contratto assicurativo adeguato a soddisfare le esigenze del contraente” (art. 119-ter, comma 4, Cap). La Consob ha chiarito che quest’ultima consulenza non costituisce un tipo autonomo, essendo invece riconducibile alla consulenza base.
Un altro tipo di consulenza (il secondo, dopo la consulenza base) è la cosiddetta “consulenza indipendente”. Essa viene definita dai regolamenti emanati dall’Ivass e dalla Consob per le rispettive aree di competenza. Si tratta di una consulenza di derivazione Mifid2 (Direttiva 2014/65/Ue del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014 relativa ai mercati degli strumenti finanziari), essendo definita tanto dal Reg. Intermediari, quanto dal Reg. Ivass, come “la consulenza prevista dall’art. 24-bis, comma 2” del Tuf (art. 131, comma 1, lett. l) Reg. Intermediari; art. 2, comma 1, lett. i-bis) Reg. Ivass n. 40/2018).
Giova ricordare che i regolamenti citati costituiscono attuazione, sul piano delle fonti secondarie, della disciplina europea contenuta nella Idd, già recepita a livello primario con dlgs 21 maggio 2018, n. 68. Ora, come si è già anticipato, con l’attuazione della Idd la disciplina relativa alla distribuzione degli Ibips, e dunque anche quella relativa all’attività di consulenza, è fuoriuscita dal Tuf trovando la propria naturale collocazione nel Cap. Si delineano quindi due diverse tipologie di consulenza: quella in materia di Ibips disciplinata dalla Idd e quella in materia di investimenti regolata da Mifid2. Tra le due non sussistono differenze significative: le regole dettate per la consulenza assicurativa e per quella in materia di investimenti sono sostanzialmente analoghe, pur conservando alcuni elementi di originalità. La stessa Consob, in sede di modifica del Regolamento intermediari in attuazione della Idd, ha dato atto che la disciplina relativa all’adeguatezza, all’appropriatezza, alle procedure interne, alla funzione di controllo di conformità, al trattamento dei reclami, alle operazioni personali, alla consulenza su base indipendente, all’informativa ex ante ed ex post, all’individuazione del target market effettivo, alla conservazione delle registrazioni e agli incentivi ricalca quella prevista da Mifid2. Del resto, l’intento di non creare divergenze apprezzabili tra le due discipline era stato esplicitato dalla Consob nella medesima sede: “l’obiettivo [è stato quello] di dettare disposizioni che fossero per quanto possibile in linea con la corrispondente normativa applicabile alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento di derivazione Mifid II, considerato il carattere di armonizzazione minima della Idd. Tale scelta trova la sua ratio nella succedaneità che caratterizza gli Ibip rispetto agli strumenti finanziari e nella ravvisata opportunità di garantire agli investitori un livello di tutela analogo a quello agli stessi riconosciuto nell’ambito della prestazione dei servizi e delle attività di investimento”. Un simile approccio, peraltro, tiene, altresì, conto dell’esigenza degli intermediari di operare attraverso processi quanto più possibile uniformi, contenendo i costi e gli oneri da sostenersi per l’adeguamento alla disciplina di derivazione Idd.
Un’ulteriore conferma di tale impostazione si trae da una espressa disposizione del Regolamento Intermediari secondo la quale gli intermediari che svolgono sia la distribuzione di Ibips sia il collocamento di strumenti finanziari e/o la consulenza in materia di investimenti devono considerare il rapporto con i clienti in maniera unitaria, al fine di adempiere in modo uniforme e coordinato alle regole di condotta sugli stessi gravanti (cfr. art. 135-vicies bis, rubricato “Distribuzione di prodotti bancari, prodotti di investimento assicurativi e servizi di investimento”).
5.1.Consulenza obbligatoria in materia di Ibips
La Idd consente agli Stati membri di rendere obbligatoria la prestazione di consulenza per la vendita di tutti o di determinati prodotti assicurativi (art. 22, par. 2, comma 3). Il legislatore italiano, avvalendosi di tale facoltà concessa dalla direttiva europea, ha deciso di introdurre la fattispecie della consulenza obbligatoria proprio in materia di Ibips. L’art. 121-septies del Cap ha demandato all’Ivass di stabilire con regolamento i casi in cui l’impresa di assicurazione o l’intermediario assicurativo sono obbligati a fornire consulenza per la distribuzione del prodotto di investimento assicurativo.
Il Reg. Ivass n. 40/2018 prevede che la consulenza sia obbligatoria in materia di Ibips complessi. Allo stesso modo fa il Reg. Intermediari, per quanto di sua competenza, rinviando alla disciplina del Reg. Ivass. Cosa si intende per Ibip “complesso”? L’informazione si ricava, a contrario, dall’art. 16 Reg. (Ue) 2017/2359, il quale elenca una serie di requisiti che l’Ibip deve soddisfare affinché possa definirsi “non complesso” (per es. la circostanza che il prodotto non debba includere una struttura che renda difficoltoso per il cliente capire il rischio assunto); in mancanza di uno solo dei requisiti elencati, l’Ibip deve intendersi complesso e, dunque, soggetto alla consulenza obbligatoria.
5.2.Distribuzione di Ibips (complessi) inadeguati
L’introduzione della consulenza obbligatoria in materia di Ibips complessi è andata di pari passo con la previsione di un obbligo di astensione in capo al distributore nel caso in cui, all’esito della consulenza, il prodotto risulti non adeguato al cliente o comunque non coerente con le sue richieste ed esigenze assicurative.
L’esplicita previsione normativa induce a ritenere che il legislatore abbia inteso introdurre un vero e proprio divieto di distribuzione di Ibips inadeguati. Quali sarebbero, allora, le conseguenze in caso di violazione di detto divieto? Possono prospettarsi due soluzioni.
I) Di primo acchito si potrebbe sostenere che la violazione del divieto determini una responsabilità contrattuale in capo al distributore. Interessante, in relazione a questa ipotesi, è la valutazione in punto di nesso causale. Si è, infatti, sostenuto che il danno dovrebbe ritenersi, sempre e comunque, diretta conseguenza (1223 c.c.) della vendita di un Ibip inadeguato: se il distributore avesse correttamente valutato l’inadeguatezza, l’Ibip non sarebbe stato distribuito ed il danno non si sarebbe verificato. Danno in re ipsa, come si suol dire. Alla tesi appena esposta potrebbe muoversi la seguente obiezione: in presenza di un obbligo di astensione in capo al distributore del prodotto, non è tanto il danno a essere in re ipsa, quanto piuttosto il nesso di causalità. Sul punto sembra concordare una consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo la quale “in tema di intermediazione finanziaria, nell’ipotesi di operazione inadeguata od in conflitto d’interessi, la violazione dell’obbligo giuridico di astensione a carico dell’intermediario esclude la necessità dell’accertamento del nesso causale, da ritenersi in re ipsa”. Ciò dipende dalla circostanza che nell’ambito della causalità omissiva, l’accertamento del nesso causale si svolge attraverso un giudizio controfattuale, ossia sostituendo l’omissione con la condotta alternativa dovuta, onde stabilire se quest’ultima avrebbe potuto evitare il danno lamentato. Ora, se la condotta alternativa dovuta consiste in una condotta passiva (astenersi dal distribuire un prodotto inadeguato), essa, per necessità, risulta idonea a evitare l’eventuale danno derivato dall’opposta condotta attiva (distribuzione del prodotto inadeguato). La violazione di un obbligo di astensione non consente, viceversa, di escludere anche la necessità di accertare l’esistenza di un danno. A rigore, infatti, la distribuzione di un prodotto inadeguato (in violazione dell’espresso divieto di distribuzione) non implica l’esistenza di un danno. Si consideri il caso in cui il prodotto distribuito, pur essendo inadeguato, abbia fruttato cospicui rendimenti al contraente: la violazione dell’obbligo di astensione, lungi dal cagionare un danno, ha invece procurato al cliente un vantaggio economico. E senza danno non può darsi alcuna responsabilità.
II) Un’altra ricostruzione, maggiormente plausibile rispetto a quella sopra descritta, muove, invece, dalla natura imperativa del divieto di distribuzione di Ibips inadeguati. A riguardo, giova anzitutto ricordare che tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, è ormai pacificamente acquisito che le regole di condotta in materia di intermediazione finanziaria abbiano natura imperativa. Sul punto è ancora decisivo l’insegnamento delle sezioni unite della Cassazione (Cass. civ., Sez. Unite, 19/12/2007, n. 26724), secondo cui le norme dettate dalla legge che detta la disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare hanno carattere imperativo: esse sono, cioè, dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari e si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti.
Ora, come abbiamo visto (§5), le norme dettate per la distribuzione degli Ibips sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle dettate per la distribuzione di prodotti finanziari; non è quindi arbitrario, e anzi, è coerente, predicarne l’eguale natura.
Tuttavia, la circostanza che le norme in materia di distribuzione di Ibips abbiano natura imperativa non comporta, di per sé, che la loro violazione dia luogo a nullità ex art. 1418, comma 1, c.c. Sul punto è fondamentale l’insegnamento delle Sezioni Unite Rordorf del 2007, secondo cui “le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (…), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente” (Cass. civ., Sez. Unite, 19/12/2007, n. 26724, §1.4).
Deve, infatti, tenersi conto che anche nello specifico settore dell’intermediazione finanziaria vige la tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: solo la violazione di queste ultime può dar luogo a nullità del negozio; mentre la violazione delle prime è, di regola, solo fonte di responsabilità, facendo sorgere il diritto al risarcimento di eventuali danni.
Secondo le Sezioni Unite, in linea di principio le norme di comportamento in materia di intermediazione finanziaria (e quindi anche quelle in materia di distribuzione di Ibips) devono ricondursi alla categoria delle regole la cui violazione può essere fonte di responsabilità. Ci sono però delle eccezioni. L’insieme delle norme di comportamento che disciplinano l’intermediazione finanziaria è così ampio e variegato che in esso possono anche rinvenirsi regole di validità la cui violazione determina la radicale nullità del contratto. Sono le stesse sezioni unite a individuare queste eccezioni: si tratta dei casi in cui la norma imperativa, in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vieta la stipulazione del contratto. La posizione della Suprema corte è inequivocabile: “se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo” (Cass. civ., Sez. Unite, 19/12/2007, n. 26725, §1.7.).
La conclusione, in materia di distribuzione di Ibips inadeguati, si trae dunque facilmente: poiché il Reg. Ivass e il Reg. Intermediari obbligano il distributore ad astenersi quando, all’esito della consulenza obbligatoria, il prodotto risulti inadeguato al cliente, la violazione di tale obbligo di astensione, stante la sua natura imperativa, determina la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.
6.Natura giuridica delle polizze Unit linked
Delineati alcuni punti chiave della disciplina in materia di Ibips, non può eludersi la domanda: i prodotti di investimento assicurativi sono prodotti finanziari o prodotti assicurativi? Il quesito, con specifico riguardo alle polizze Unit linked, ha impegnato negli ultimi anni la giurisprudenza di ogni ordine e grado: dai tribunali ordinari alla Corte di giustizia dell’Unione europea; non sono mancati, ovviamente, approfonditi interventi della dottrina. In passato, prima dei recenti interventi legislativi in materia di prodotti d’investimento assicurativi, il problema della natura giuridica delle polizze linked era particolarmente sentito perché dalla sua soluzione discendevano importanti conseguenze riguardo alla disciplina applicabile (Cap o Tuf) e alla validità di detti contratti.
Oggi il problema della disciplina applicabile può dirsi superato, giacché ai prodotti d’investimento assicurativi si applica il Titolo IX del Cap. Permane invece il problema della validità, sul quale si sono registrati contrastanti interventi giurisprudenziali e dottrinali. Semplificando, si possono delineare due tesi.
6.1.Natura finanziaria e tesi della nullità
Le polizze sulla vita sono sempre state caratterizzate da una componente finanziaria. In origine tale componente era costituita dal fatto che per il calcolo del premio e delle somme assicurate si svolgeva un’operazione di capitalizzazione a un saggio di interesse predeterminato (tasso tecnico). In tal modo le prestazioni contrattuali rimanevano invariate per tutta la durata del rapporto e il rischio finanziario (relativo agli investimenti delle somme pagate a titolo di premio) era interamente a carico dell’assicuratore.
Dicevamo che la novità delle polizze linked sta tutta nel fatto che la componente finanziaria della polizza (presente, lo ribadiamo, anche nelle polizze vita tout court) viene esasperatamente accentuata attraverso il collegamento (link) delle prestazioni assicurate a un indice di borsa o a un fondo comune di investimento, elementi per definizione variabili. Da qui il rischio che l’andamento particolarmente negativo dell’indice di riferimento possa comportare, in alcuni casi, anche la perdita dell’intero capitale investito.
A seconda del grado di rischio finanziario accettato dal cliente, si suole distinguere tra: polizze linked pure (in cui non vi è alcuna garanzia in caso di perdita del capitale investito), polizze linked garantite (in cui la compagnia assicurativa si fa carico delle perdite, garantendo almeno il capitale investito), polizze linked parzialmente garantite (in cui la compagnia assicurativa garantisce solo una quota parte del capitale investito).
I problemi maggiori si pongono, ovviamente, con riguardo alle polizze che non garantiscono al contraente la restituzione del capitale investito. Secondo un certo orientamento giurisprudenziale, infatti, l’assenza della garanzia di restituzione del capitale costituisce elemento ostativo alla qualifica assicurativa della polizza.
La tesi muove dalla constatazione che nel contratto di assicurazione sulla vita il rischio è assunto dall’assicuratore, il cui margine di profitto è direttamente proporzionale alla frazione di tempo intercorrente tra la stipula del contratto e l’evento della vita in esso dedotto (rischio demografico); al contrario, nei casi in cui la prestazione assicurata dipende interamente dalle dinamiche dei mercati mobiliari, senza alcuna garanzia di risultato, il rischio è assunto dal contraente e la forma giuridica della polizza vita serve solo a individuare il momento (morte dell’assicurato) in cui l’assicuratore dovrà adempiere la prestazione. Un prodotto così configurato, si sostiene, perde la propria natura assicurativa e si tramuta in un vero e proprio investimento finanziario.
Il compito di stabilire dove si situa la linea di demarcazione tra assicurazione e prodotto finanziario spetta, secondo la Cassazione, al giudice di merito, che “deve interpretare il contratto (…) al fine di stabilire se esso, al di là del “nomen iuris” attribuitogli, sia da identificare come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell’esistenza dell’assicurato è assunto dall’assicuratore) oppure si concreti nell’investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio di “performance” sia per intero addossato all’assicurato)”.
a riqualificazione di una polizza vita in prodotto finanziario aveva grande rilevanza in un quadro ordinamentale, in cui le differenze di disciplina tra i due tipi di contratto erano significative: spesso le cause intentate dai contraenti delle polizze linked facevano (e fanno) leva sulla riqualificazione del contratto, allo scopo di rendere applicabili i più rigorosi oneri informativi e di forma previsti per i prodotti finanziari e di contestarne la violazione alle compagnie assicurative. Abbiamo, però, già accennato alla circostanza che nel mutato contesto normativo, in cui la disciplina in materia di Ibips appare sostanzialmente assimilabile a quella in materia di investimenti finanziari, la scelta tra la natura assicurativa o finanziaria di una polizza linked non sembra avere più quella rilevanza che ad essa giustamente si attribuiva.
Si tratta, allora, di verificare se la riqualificazione di una polizza vita in prodotto finanziario possa avere una qualche incidenza sul piano della validità del negozio.
Sul punto la posizione della Cassazione è affidata al seguente principio di diritto (poi, come diremo infra, sottoposto a rivalutazione): “nelle polizze unit linked, anche ove sia prevalente la causa «finanziaria», la parte qualificata come «assicurativa» deve rispondere ai principî dettati dal codice civile, dal codice delle assicurazioni e dalla normativa secondaria ad essi collegata con particolare riferimento alla ricorrenza del «rischio demografico», rispetto al quale il giudice di merito deve valutare l’entità della copertura assicurativa che, avuto riguardo alla natura mista della causa contrattuale, dovrà essere vagliata con specifico riferimento all’ammontare del premio versato dal contraente, all’orizzonte temporale ed alla tipologia dell’investimento” (Cass. civ., Sez. III, Sent., 05/03/2019, n. 6319, §5). Il caso sottoposto all’esame della Suprema corte riguardava una polizza Unit linked senza garanzia di restituzione integrale del capitale. Il contratto prevedeva che, in caso di decesso degli assicurati, i beneficiari avrebbero ricevuto il controvalore delle quote di fondi comuni acquistate con il premio versato e un capitale aggiuntivo pari allo 0,1% del controvalore delle quote (capitale che, in ogni caso, non poteva essere superiore a 15 mila euro). La presenza di una minima prestazione garantita (0,1% del controvalore delle quote) ha indotto il Supremo collegio a cassare la sentenza oggetto di ricorso e a rinviare la causa alla competente Corte d’appello per valutare “se l’entità della prestazione garantita, a fronte del capitale versato [circa 1 milione di euro, ndr], fosse talmente irrisoria da vanificare completamente l’equilibrio delle prestazioni”. La pronuncia sottintende che, in difetto di tale equilibrio, il negozio deve reputarsi nullo, anche in considerazione delle previsioni regolamentari che richiedono un effettivo impegno da parte dell’impresa assicurativa a liquidare prestazioni il cui valore sia dipendente dalla valutazione del rischio demografico.
Facendo proprio il principio di diritto enunciato dalla Cassazione nel 2019, un anno più tardi il Tribunale di Crotone, in una vicenda analoga, è giunto ad affermare che “l’assoluta irrilevanza della prestazione garantita per il rischio demografico, come nel caso di specie (tanto esigua da dover essere considerata irrisoria a fronte della sua essenzialità), determina la nullità della polizza, rilevabile d’ufficio” (Tribunale Crotone, Sent., 13/01/2020, n. 32).
In conclusione, la Cassazione sembra sposare la tesi per cui in presenza di una prestazione assicurata esposta alle fluttuazioni del mercato e in assenza di garanzie sulla restituzione del capitale investito, l’eccessiva sproporzione tra il (cospicuo) premio versato e la (esigua) prestazione garantita fa venire meno il cosiddetto rischio demografico, ossia il rischio assunto dall’assicuratore di pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. Poiché il rischio demografico si considera, ex art. 1882 c.c., elemento causale del contratto di assicurazione sulla vita, il suo venir meno comporterebbe la nullità strutturale del negozio ex art. 1418, comma 2, c.c.
6.2.Natura assicurativa e tesi della validità
La tesi della nullità delle polizze linked per mancanza di causa è avversata dalla nostra giurisprudenza di merito più recente, oltre che da consolidati pronunciamenti della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Si afferma, innanzitutto, che sul piano del diritto europeo la figura delle polizze linked è stata inquadrata, sin da sempre, verrebbe da dire, nell’ambito dei contratti di assicurazione: già la Direttiva 79/267/Cee del Consiglio, del 5 marzo 1979, individuava come assicurazioni del ramo III “le assicurazioni (…) connesse con fondi d’investimento” (all. I, punto III). Il diritto nazionale, recependo le direttive europee via via emanate, ha accolto la classificazione europea, sicché non può esservi alcun dubbio in ordine al fatto che sul piano del diritto positivo le polizze linked costituiscano un contratto di assicurazione. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha da tempo chiarito che “i contratti detti unit linked oppure collegati a fondi di investimento (…) sono normali in diritto delle assicurazioni” (Cgue, Sez. V, 1° marzo 2012, C-166/11); infatti, “per rientrare nella nozione di ‘contratto di assicurazione’ (…), un contratto di assicurazione sulla vita di capitalizzazione (…), deve prevedere il pagamento di un premio da parte dell’assicurato e, in cambio di tale pagamento, la fornitura di una prestazione da parte dell’assicuratore in caso di decesso dell’assicurato o del verificarsi di un altro evento di cui al contratto” (Cgue, Sez. IV, 31 maggio 2018, C-542/16, §51). Ne discende che la sussistenza del binomio premio-prestazione è condizione sufficiente per qualificare il contratto come assicurativo; irrilevante è, invece, il dato dell’allocazione del rischio e della garanzia di restituzione del capitale (questo orientamento della Corte è stato recentemente confermato da Cgue, Sez. III, 24 febbraio 2022, C-143/20 e C-213/20).
L’orientamento della Corte di giustizia è stato seguito da diversi giudici di merito che hanno affermato la natura assicurativa delle polizze linked accertandone, al contempo, la validità.
Il Tribunale di Bergamo (Tribunale Bergamo, Sez. IV, Sent., 23/07/2021, n. 1419), ad esempio, dopo aver rilevato che le sentenze della Corte di Giustizia hanno natura interpretativa, in quanto sono state emesse a seguito del rinvio pregiudiziale promosso dal giudice nazionale, ha statuito che il principio di diritto affermato [dalla Corte di giustizia, ndr] (id est l’irrilevanza dell’allocazione del rischio e della garanzia di restituzione del premio) risulta immediatamente applicabile nell’ordinamento interno (…). L’efficacia vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale delle sentenze interpretative della Corte di giustizia induce allora il Tribunale a qualificare la polizza di causa in termini di contratto di assicurazione del ramo III, e non già in termini di prodotto finanziario puro”.
Secondo il Tribunale di Firenze (Trib. Firenze 11 febbraio 2020, n. 407), “le polizze cosiddette Unit linked rientrano nella categoria dei prodotti assicurativi di Ramo III, definiti espressamente come assicurazioni sulla vita le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni ovvero a indici o ad altri valori di riferimento’. (…) Si tratta quindi di polizze a componente causale cd. ‘mista’ finanziaria e assicurativa sulla vita, in quanto anche se prevalente la causa finanziaria (in cui il rischio di ‘performance’ sia per intero addossato sull’assicurato in ordine al valore finale della prestazione) e pur sempre presente la causa assicurativa (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell’esistenza dell’assicurato è assunto dall’assicuratore, cd. ‘rischio demografico’). Pacifico, ormai, l’orientamento della giurisprudenza nazionale e comunitaria nel considerare tali prodotti a tutti gli effetti come contratti assicurativi appartenenti al ramo vita, sebbene le prestazioni dell’assicuratore siano collegate al valore di fondi di investimento”.
Anche la Commissione Tributaria di Milano (Ctr Milano, Sez. XIV, 17 maggio 2021, n. 1865) ha avuto modo di pronunciarsi sull’argomento, giungendo ad affermare che “risulta incontestato che il contratto di assicuratone stipulato dalla contribuente appellata con la società lussemburghese (…) s.a. appartenga alla tipologia dei contratti cosiddetti unit-linked.
Altrettanto pacifiche appaiono le caratteristiche di questo contratto: assenza di certezza sull’entità del capitale rimborsato dalla compagnia assicurativa, dipendendo l’entità di esso dall’andamento degli strumenti finanziari sui quali l’assicuratore intende investire nel corso della vita della polizza; assenza di premi costanti pagati dall’assicurato; mancato assunzione da parte dell’assicuratore del c.d. rischio demografico.
E tuttavia rileva la Commissione che queste caratteristiche non sono considerate ostative dall’attuale assetto normativo italiano ed eurounitario al fine di includere nella tipologia dei contratti di assicurazione anche le polizze unit-linked. (…) Secondo la Direttiva 2016/97/Ue di recente implementata in Italia, tutti i contratti emessi da imprese di assicurazione, che operano nel ramo III sono contratti di assicurazione sulla vita, a prescindere dalla sussistenza o meno di garanzie di copertura del rischio finanziario”.
Come si vede, la tesi della validità delle polizze linked non garantite appare decisamente persuasiva perché fondata su dati normativi e su una consolidata giurisprudenza europea. La contraria giurisprudenza di legittimità, secondo la quale è ravvisabile un valido contratto di assicurazione sulla vita soltanto in presenza di una garanzia di restituzione (almeno parziale) del capitale, aveva ragion d’essere in un periodo, ormai passato, in cui sussisteva effettivamente una qualche incertezza su quali fossero le norme applicabili alle polizze linked. Oggi, tuttavia, il mutato contesto ordinamentale e la granitica giurisprudenza europea suggeriscono che i tempi siano maturi per un definivo superamento della tesi della nullità anche da parte della nostra Corte Suprema.
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