UNA PRONUNCIA DEI GIUDICI DI LEGITTIMITÀ SU MOBBING E ATTI PERSECUTORI IN AMBITO LAVORATIVO
di Nicola Pietrantoni
L’abuso del potere disciplinare in ambito lavorativo è compatibile con il c.d. «stalking occupazionale» e può portare a conseguenze anche di natura penale. In particolare, integra il reato di atti persecutori, previsto e disciplinato all’art. 612-bis del codice penale, la condotta di mobbing da parte del datore di lavoro consistente in una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione e isolamento nell’ambiente di lavoro.

Tra i vari comportamenti che possono tradursi in atti persecutori assume un particolare significato proprio l’utilizzo strumentale del potere disciplinare che può culminare in licenziamenti ritorsivi e determinare un vero e proprio vulnus alla libera autodeterminazione del lavoratore.In questi termini, si è espressa la Corte di cassazione (V Sezione Penale) con la sentenza n. 12827/2022 (motivazioni depositate il 5/4/2022), con la quale ha rigettato il ricorso presentato dal presidente di una società di servizi ritenuto responsabile, nei precedenti giudizi di merito, anche per il delitto di atti persecutori.

L’imputazione. Il ricorrente, si legge nelle motivazioni, era stato condannato per aver posto in essere una serie di condotte persecutorie nei confronti di alcuni dipendenti, consistite in «…reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare» che avevano «…ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita».

La fattispecie contestata prevede che «…salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita» (art. 612-bis, c.p.).

Nel caso di specie, inoltre, era stata contestata al datore di lavoro anche l’aggravante ex art. 61, n. 11 c.p., che comporta un aumento di pena ove il fatto sia commesso «…con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione, o di ospitalità».

La tesi della difesa. Il ricorrente, in sede di legittimità, ha offerto due argomenti difensivi. Con un primo motivo, ha lamentato la mancata valorizzazione, da parte dei giudici di merito, di una circostanza che sarebbe stata documentata nel corso del dibattimento e che avrebbe dovuto portare la Corte di appello a valutare diversamente la condotta oggetto di imputazione: il fatto che «…tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori erano stati condivisi ed esaminati dal consiglio di amministrazione della società e che le iniziative dell’organo gestorio erano finalizzate esclusivamente al miglioramento della produttività della stessa». Secondo la difesa dell’imputato, la doverosa valutazione di questo elemento probatorio avrebbe consentito di accertare che alcuni dipendenti avevano assunto un particolare atteggiamento ostile proprio rispetto a quelle trasformazioni produttive e organizzative attuate dal datore di lavoro in seno alla società, situazione che avrebbe poi innescato, sempre secondo la difesa, un forte conflitto tra l’imputato e i dipendenti iscritti alla medesima associazione sindacale. Il comportamento del datore di lavoro, oggetto di contestazione ex art. 612-bis, avrebbe dovuto essere collocato nella dimensione lavorativa, in quanto originato esclusivamente dalle molteplici direttive di lavoro e dagli ordini di servizio disattesi, in termini sistematici, da quei lavoratori (persone offese nel procedimento penale) nel periodo in cui l’imputato ricopriva la carica di presidente della società.In altre parole, il ricorrente ha ritenuto che la condotta rappresentasse la concreta reazione alle continue violazioni, da parte dei dipendenti, delle direttive impartite dalla governance societaria, in un contesto di forte tensione che si era creata proprio tra quei lavoratori e i vertici aziendali.
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