La partita Generali ha portato sotto i riflettori lo strumento della lista del cda. Se sulla contesa in corso a Trieste mercoledì 17 si esprimerà la Consob, in Parlamento è arrivato un disegno di legge che potrebbe incidere sul futuro dello strumento. Per Andrea Resti (professore di Economia alla Bocconi) le candidature del board non hanno in sé nulla di patologico, ma non devono scadere nell’autoreferenzialità.

Domanda. Resti, cosa ne pensa di questa prassi?

Risposta. Di per sé può essere positiva e virtuosa, anche se ovviamente si presta a essere utilizzata in modo opportunistico, per rendere meno stringente il vaglio del mercato, «schermare» uno o più azionisti di riferimento o perpetuare situazioni di potere personale. Non c’è nulla di patologico, tuttavia, nel fatto che in una grande società a capitale diffuso gli amministratori decidano di ripresentarsi all’esame del mercato, assumendosi anche il rischio di una bocciatura, purché ciò avvenga in condizioni di trasparenza e di parità competitiva con le altre liste.

D. Vede un rischio di autoreferenzialità nell’applicazione di questo strumento?

R. Molto dipende dalla capacità degli azionisti diffusi di organizzarsi, attraverso i fondi e i proxy advisor, per far sentire la propria voce e mantenere un adeguato equilibrio tra continuità della gestione e prerogative assembleari.

D. Come ridurre questo rischio di autoreferenzialità assicurando un dialogo virtuoso con il mercato e con la Vigilanza?

R. Coltivando amministratori indipendenti e soprattutto competenti. Chi ha la capacità tecnica per comprendere le possibili degenerazioni e un capitale reputazionale da proteggere, difficilmente avalla soluzioni che non siano nell’interesse di tutti gli azionisti.

D: Il fenomeno delle liste del cda va letto alla luce della progressiva affermazione del modello di public company. A suo avviso sinora la public company ha portato concreti benefici agli azionisti?

R. È molto difficile generalizzare. Non considero negativa la presenza di un azionista di riferimento che governa rischiando i propri soldi, piuttosto diffido dei salotti e dei nocciolini: l’importante, insomma, è che le public company non cadano preda dei capitalisti senza capitali…

D. Si sente ancora nostalgia di vecchi strumenti come patti di sindacato o piramidi societarie. Ritiene che un recupero di questi strumenti sarebbe auspicabile?

R. Nessuno strumento è intrinsecamente negativo se utilizzato con trasparenza e nel rispetto della legge. I patti parasociali, per esempio, non possono impedire ai singoli partecipanti di aderire all’Opa promossa da un soggetto esterno che considera insoddisfacente la gestione corrente.

D. Un altro tema sollevato spesso è quello dell’indipendenza dei consiglieri. Ritiene che in Italia su questo fronte ci siano ancora anomalie da sanare?

R. Se si prescinde dai casi più macroscopici, è difficile definire il concetto di indipendenza. Il Tuf lo fa in modo piuttosto generico, mentre i codici di autodisciplina devono mediare tra sensibilità diverse e non possono alzare troppo l’asticella. Eppure i veri consiglieri indipendenti servono innanzi tutto al top management, perché forniscono una prospettiva diversa che, se ascoltata, può rendere più solide le strategie aziendali.

D. Anche in questo caso, come si potrebbe intervenire per migliorare il quadro?

R. La vera indipendenza nasce, a mio avviso, dalla competenza: la finanza è diventata una materia complessa e chi non ha le risorse tecniche per capire se una certa operazione crea valore tende, per prudenza, a schierarsi con il grande capo. Chi invece possiede le lenti adatte a leggere i numeri, i piani e le valutazioni degli advisor finisce, presto o tardi, per svolgere un ruolo più critico. Da questo punto di vista, le modifiche alla direttiva sulle banche proposte il mese scorso dalla Commissione europea contengono spunti interessanti, perché aiutano la vigilanza a verificare i requisiti di professionalità dei nuovi amministratori. (riproduzione riservata)
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