La Cassazione: il datore di lavoro risponde penalmente solo per il reato di lesioni
In salvo dalla frode l’imprenditore che cancella le tracce
Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

Salvato dalla Cassazione il datore di lavoro che cancella le tracce alterando il posto ove è avvenuto l’infortunio del dipendente, e annullata così la decisione della Corte d’appello che ne aveva invece confermato, anche agli effetti civili, la condanna per il reato di frode processuale di cui all’art. 374 c.p., per avere, in occasione dell’incidente occorso al lavoratore, e prima dell’intervento dei soccorsi e della polizia, modificato lo stato dei luoghi. Specificamente, la quinta sezione penale della Suprema corte, con sentenza dell’11 marzo 2021, n. 9806, pur dando atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia, ha accolto la tesi difensiva e ha riconosciuto l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 384, comma 1 c.p., che prevede che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore; infatti l’imputato nell’occultare le prove sarebbe stato mosso dalla esigenza di evitare le prevedibili conseguenze penali dell’incidente al dipendente, a lui imputabili in quanto datore di lavoro.
Il caso. L’amministratore di una società di trasporti era stato condannato in primo e secondo grado, oltre che per le lesioni subite da due suoi dipendenti a seguito di infortunio cagionato dall’omessa osservanza delle norme antinfortunistiche, per aver, in occasione dell’incidente e prima dell’intervento dei soccorsi e degli inquirenti, mutato lo stato dei luoghi e successivamente minacciato di licenziamento alcuni dipendenti affinché rilasciassero alla polizia giudiziaria dichiarazioni compiacenti sulla dinamica dell’infortunio.

Avverso la sentenza l’imputato aveva presentato ricorso per Cassazione, invocando, per quanto più ora interessa, l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 384 c.p.: sosteneva, in poche parole, che, pacificamente escluso l’obbligo di autoincriminazione, doveva altresì escludersi la punibilità per frode processuale di chi abbia posto in essere l’illecito per evitare le conseguenze penali dell’incidente a lui addebitabili come datore di lavoro.

Norme del codice penale e inquadramento giuridico. Anticipando sin d’ora che la Corte ha ritenuto fondato il ricorso, ciò che ora interessa è la motivazione offerta dagli Ermellini a supporto di una determinazione che potrebbe lasciare comprensibilmente perplessi i non giuristi.

Dunque, l’art. 374 c.p., rubricato «Frode processuale», punisce con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nella esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone». Prosegue la norma precisando che la stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, o anteriormente a esso.

Quanto all’altra disposizione che viene in rilevo nella vicenda in esame, ovvero l’art. 384 c.p., essa prevede che, in determinati casi tassativamente elencati dal legislatore, tra cui proprio il suddetto illecito di cui all’art. 374 c.p., «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore».

Le diverse interpretazioni giurisprudenziali. Tutto ciò premesso, vi è da chiarire che su natura e ambito di applicazione della suddetta esimente la giurisprudenza di legittimità ha dato vita a orientamenti divergenti.

Provando a semplificare, secondo l’orientamento a cui la Cassazione ha deciso di aderire in questa pronuncia si tratta di una causa di esclusione della colpevolezza, il che si traduce nel dover basare la valutazione sulla situazione soggettiva in cui versa l’agente a fronte del pericolo inevitabile di un nocumento per la propria libertà o per il proprio onore, tale da rendere inesigibile un comportamento conforme al precetto (Cass. pen. n. 53939/2018).

Da questo inquadramento la giurisprudenza fa discendere un’ulteriore deduzione, anch’essa condivisa dalla pronuncia in commento, e cioè che l’esimente deve ritenersi applicabile anche quando lo stato di pericolo sia stato cagionato volontariamente dall’agente (Cass. pen. n. 37398/2011), compresa l’ipotesi in cui abbia commesso la frode processuale per eludere le investigazioni relative a un altro reato precedentemente commesso sempre da lui (Cass. pen. n. 15327/2019).

La valutazione richiesta al giudice. In altre parole, la Cassazione ha qui negato, come invece ha provato a sostenere l’indirizzo più rigoroso di segno contrario, che presupposto dell’applicabilità della esimente invocata sia l’involontaria causazione del pericolo.

Tuttavia, ciò non significa che l’applicazione della causa di non punibilità sia automatica e che il riferimento alla situazione di necessità contenuto nell’art. 384 c.p. possa essere trascurato: infatti, ad avviso della Suprema corte, esso rivela la volontà del legislatore di condizionare l’operatività dell’esimente al qualificato rapporto di derivazione del fatto illecito commesso alla esigenza di tutela della libertà e dell’onore, con la conseguenza che non è sufficiente la mera possibilità che un evento temuto si concretizzi, bensì, pur nei limiti della prognosi, la previsione del suddetto verificarsi deve essere assistita dal più alto grado di probabilità sulla base dei parametri di immediatezza e consequenzialità (Cass. pen. n. 26570/2008 e n. 19110/2015).

La decisione della Suprema corte. Calando gli illustrati principi nel caso di specie, la Suprema corte ha ritenuto doveroso riconoscere al ricorrente l’invocata esimente, spiegando come dalla sentenza impugnata emergesse in maniera inequivocabile il rapporto di immediata consequenzialità tra l’incidente occorso al lavoratore e il pericolo per l’imputato di vedersi attribuire la responsabilità per le conseguenze subite dal dipendente, mentre è altrettanto indubitabile che, nella sua qualità di datore di lavoro, egli fosse perfettamente consapevole del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche poi effettivamente contestatogli, talché il suo comportamento è stato valutato come coerente con il fine di evitare quella che gli appariva una altrimenti inevitabile condanna per quanto accaduto.

Da qui, pur ferma la condanna per il reato di lesioni, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riguardo al reato di frode processuale di cui all’art. 374 c.p. perché il fatto non costituisce reato, revocando le relative statuizioni civili.

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