Lo ha chiarito la Cassazione in un caso di ristrutturazione. Sul datore non grava la prova. Il lavoratore che si rifiuta non può chiedere il danno

Pagina a cura di Daniele Bonaddio

Non si configura l’ipotesi di «demansionamento» laddove, in caso di ristrutturazione, il datore di lavoro ricolloca il lavoratore in attività equipollenti presso altri siti produttivi. Infatti, qualora il lavoratore rifiuti l’assegnazione ad altre mansioni, al medesimo livello di inquadramento, il datore non viola i principi dettati dallo ius variandi (art. 2103 cod. civ.), modificato dall’art. 3 del dlgs 81/2015 (cd. Jobs Act). Tra l’altro, la mancata accettazione delle posizioni lavorative offerte esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’inesistenza della fattispecie di demansionamento. Attenzione: la scelta datoriale di trasferire un dipendente piuttosto che un altro, e di conseguenza modificarne anche le mansioni, è una valutazione insindacabile in sede di legittimità, purché la preferenza non sia pretestuosa, irrazionale o effettuata in mala fede. A stabilirlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 17634 del 1° luglio 2019.

La vicenda. I giudici della Suprema corte si sono espressi in merito al ricorso di una lavoratrice che lamentava di aver subito un demansionamento, avanzando di conseguenza la condanna della datrice di lavoro alla riammissione delle mansioni precedentemente svolte (addetto al supporto alla vendita) e al risarcimento del danno subìto.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Brescia aveva respinto le pretese della lavoratrice, ritenendo che la società avesse legittimamente provato di adibire la ricorrente a mansioni equipollenti (call center). In particolare, i giudici di merito hanno tenuto conto che, a seguito di riorganizzazione aziendale, era stata ridotta la forza lavoro della società, con eliminazione di figure di supporto alla vendita, ridotte solo a due e poi a una soltanto.
Inoltre la lavoratrice aveva rifiutato due possibilità di ricollocamento, una di addetta al supporto alla vendita presso la sede di Milano, l’altra di venditrice presso il negozio aziendale di Brescia.
Tra l’altro, la scelta effettuata dalla società di mantenere altro dipendente nel solo posto, derivava dal fatto che costui aveva svolto in passato mansioni di venditore e che pertanto, sussistendo le ragioni obiettive della riduzione delle posizioni lavorative in ragione della avvenuta riorganizzazione, non era sindacabile la scelta della società della persona lasciata nell’unico posto residuato, non essendo la stessa pretestuosa, irrazionale o effettuata in mala fede.
Avverso la pronuncia di secondo grado la lavoratrice aveva fatto ricorso in Cassazione.

La difesa. A detta della lavoratrice, nonostante la Corte territoriale avesse accertato il mutamento in peius delle mansioni affidate, era stato ritenuto erroneamente non giustificato il rifiuto della lavoratrice di accettare il trasferimento a Milano o l’assunzione a Brescia presso altro datore di lavoro in franchising. Circostanza, questa, giudicata sufficiente per escludere l’onere della società di provare l’inesistenza di altre posizioni di lavoro con mansioni equivalenti in grado di preservare la professionalità acquisita.
Inoltre, affermava la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe dovuto sindacare la scelta della società di non adibirla all’unico posto rimasto disponibile (supporto alla vendita), al quale aveva assegnato invece un suo collega. Secondo la lavoratrice tale scelta era contraria a buona fede, in quanto la società non solo, contraddittoriamente, l’aveva ritenuta idoneo alla mansione di supporto alla vendita tanto da offrirle tale posizione di lavoro a Milano, ma poi gli aveva offerto una posizione dequalificante.
Altro elemento a difesa della lavoratrice riguardava la testimonianza dello stesso lavoratore adibito all’unico posto di supporto alla vendita, il quale aveva riferito di non aver avuto, all’inizio, esperienza di venditore di supporto e di essersi avvalso dell’aiuto proprio della ricorrente per svolgere tale prestazione, rimasta sempre identica nel tempo.

La sentenza. I giudici della Suprema corte hanno respinto i motivi di ricorso. Innanzitutto, gli ermellini hanno accertato che le mansioni di «operatore call center» attribuite rientravano idoneamente nel 4° livello di inquadramento del Ccnl impiegato dalla società. Inoltre, stante l’assenza di ulteriori posizioni di lavoro di analogo contenuto professionale, nonché il rifiuto opposto dalla lavoratrice di accettare le due posizioni offerte dalla società, la Corte di cassazione ritiene giustificata l’adibizione a mansioni in parte estranee alla professionalità e all’esperienza pregressa della lavoratrice. Ma non solo, la rinuncia ai due posti di lavoro offerti ha di fatto esonerato il datore di lavoro dall’onere di provare l’inesistenza della fattispecie di demansionamento.
In altri termini, il datore di lavoro non ha violato i principi dell’art. 2103 cod. civ. alla luce anche delle novità legislative apportate dall’art. 3 del dlgs 81/2015 (cd. Jobs Act).
Infine, affermano i giudici di legittimità, la scelta della società di non mantenere il ricorrente nell’unico posto di lavoro riservato al reparto «supporto alla vendita», non doveva ritenersi contraria a buona fede. Tant’è che dalla testimonianza del collega è emerso che l’attività di supporto alla vendita aveva avuto delle modifiche, essendo cambiati alcuni programmi di software con cui venivano effettuate delle verifiche più approfondite sui dati dei clienti per la fatturazione. Si tratta, quindi, di una valutazione insindacabile in sede di legittimità.
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