Sopravviverà quella complementare sino al 2043? si domanda il presidente Corbello. Fondi aperti e Pip sì. I negoziali potrebbero trovarsi in difficoltà
di Sergio Corbello

Il 28-30 giugno la società di consulenza Valore riunirà a Chia Laguna i grandi investitori istituzionali e i rappresentanti del mondo del lavoro manageriale per parlare di come si trasformerà il concetto di lavoro nel futuro. In particolare ha chiesto a nove esperti di diversi ambiti di indicare gli scenari del lavoro e come le tecnologie digitali lo influenzeranno. Anticipiamo l’intervento del presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello.

Sopravviverà la previdenza complementare sino al 28 aprile 2043? Ho scelto questa scadenza in quanto rappresenterà: il cinquantesimo anniversario del giorno di entrata in vigore del d. lgs. 21 aprile 1993, n. 124, prima disciplina organica della previdenza complementare in Italia; il cinquantesimo anniversario della celebrazione del primo Convegno nazionale organizzato a Roma da Assoprevidenza, in tema di disciplina della previdenza complementare.
Pur partendo dal presuppostoche i lavoratori e i professionisti del futuro si connotino per un’estrema mobilità e variabilità di ruoli giocati sul mercato del lavoro, non necessariamente solo nazionale, sembra ragionevole focalizzare nelle forme individuali di attuale tipologia domestica – fondi aperti e Pip- e, forse a maggior ragione, di nuova tipologia internazionale -Pepp- gli strumenti di raccolta di risparmio previdenziale più duttili e, quindi, in grado di seguire più facilmente quello che appare un accidentato e articolato percorso di attività lavorativa del singolo; i fondi negoziali (vecchi o nuovi che siano) potrebbero trovarsi in difficoltà per una molteplice serie di motivazioni: a) non aver disposto le fonti collettive l’adesione obbligatoria ex contractu, salvo dissenso espresso del singolo, ai fondi stessi, con versamento di contribuzione a carico di datore e lavoratore e conferimento del Tfr (l’iscrizione contrattuale attualmente praticata, con adesione diffusa alla totalità dei prestatori d’opera destinatari del Ccnl, soltanto con il versamento di un contributo datoriale ne appare una versione palliativa, per certi aspetti anche fuorviante e distorsiva), nell’arco di qualche lustro renderá più problematica la continuità delle forme, vuoi per la scarsa propensione all’adesione da parte dei lavoratori più giovani, vuoi per il probabile collasso di alcune delle attuali categorie di lavoratori, le quali dovrebbero essere sostituite da altre oggi non note, anche avuto riguardo alle modalità di svolgimento della prestazione d’opera (subordinata o autonoma); b) lo stesso futuro delle organizzazioni sindacali -ma il problema è analogo per le datoriali- appare incerto, avuto riguardo alla rappresentanza di tipo categoriale. Parimenti appare un’incognita l’atteggiarsi futuro delle relazioni industriali, che dovrebbero trovare nuove modalità di espressione.

In una situazione di grande cambiamento, reputo potrebbe affermarsi quello che molti anni fa (Relazione di Giorgio Benvenuto, Congresso Uil di Firenze, 1985) già fu acutamente definito il «sindacato dei cittadini», preposto a tutelare prioritariamente il singolo nel contesto sociale in relazione a diverse tipologie di bisogni e non in ragione alla peculiare posizione lavorativa. Un sindacato di questo tipo parrebbe più ragionevolmente propenso a promuovere coperture di previdenza complementare -ma il discorso può ribaltarsi anche sull’assistenza integrativa- attraverso l’adesione plurima da parte dei propri iscritti a forme individuali, magari sviluppando momenti cooperativistici, tutti da definire; i fondi aziendali o di gruppo, magari di rilevanza plurinazionale, sembrerebbero idonei a mantenere una potenzialità di crescita specie là ove si ipotizzi -e ciò è più che credibile- che gli apporti alla previdenza complementare (e a piani sanitari integrativi) sempre di più diverranno parte integrante e stabile della retribuzione dei dipendenti e del corrispettivo dei collaboratori non subordinati.
E’ appena il caso di sottolineare come l’eventuale chiusura delle aziende o dei gruppi di riferimento dei fondi accennati, per sopravvenuta obsolescenza tecnologica (fenomeno che pare suscettibile di verifi carsi con una certa frequenza), non determinerebbe problemi per i fondi stessi, posto che le posizioni individuali dei singoli iscritti in fase di accumulo sarebbero sempre e comunque trasferibili a fondi aperti o simili e le eventuali rendite in erogazione già farebbero capo a compagnie di assicurazione. (riproduzione riservata)

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