Sfaccettature

Autore: Clemente Fargion
ASSINEWS 266 – luglio-agosto 2015

Molti testi di polizza pongono, quale condizione, certo non unica, ma basilare per l’ammissibilità all’indennizzo del sinistro, che il danno abbia carattere accidentale.
L’accidentalità dell’evento dannoso è una delle condizioni di ammissibilità non solo all’indennizzo, ma anche più a monte, alla inclusione in copertura. Non vorrei sembrare ripetitivo, ma vi è il fondato timore di essere di fronte all’ennesimo esempio di utilizzo approssimativo della terminologia in ambito assicurativo. Non mi permetto di asserire che vi sia l’intenzione di nascondere il senso di questo termine dietro una nebbia di equivocità, ma certamente non si vedono profondere molti sforzi affinché si esca dall’equivoco.

Accidentale significa solo involontario?
Cosa si intende per accidentale? Istintivamente potremmo dire che è accidentale ciò che è frutto del caso, ma siamo certi che questa è l’accezione che ne danno i testi di polizza? È interessante osservare come cambino le prospettive in merito a questo tema, nei vari comparti dell’assicurazione.
Talvolta la condizione di accidentalità si intuisce dall’uso di termini limitrofi nel significato, in altri casi è espressamente richiamata, ma non sempre in linea con la logica del comune buon senso. In alcuni casi è un concetto del tutto estraneo, come accade nel caso delle fidejussioni, oppure non viene tenuto in considerazione, come nella responsabilità civile della circolazione stradale. Vediamo ora come il concetto si presenta nei settori centrali della materia assicurativa.
a) Nel ramo vita, il concetto presente in forma implicita ed in un ambito limitato a quando si esclude il suicidio (esclusione che, peraltro conosce qualche caso di operatività in deroga).
b) Nei rami danni materiali alle cose, e nel ramo infortuni, il concetto esiste ma è implicito a livello di condizioni generali, lasciato al più all’intuizione nel radiografare la ratio delle esclusioni principali (dolo dell’assicurato, usura ed altri effetti del tempo, etc.).
c) Nei rami di responsabilità civile, come vedremo più avanti, è una condizione espressa quasi a livello di premessa di carattere generale, in forma del tutto esplicita, con delle eccezioni che si presentano, come vedremo, talvolta in senso rafforzativo, talvolta in senso derogatorio.

Cominciamo a vedere come è presente il concetto di accidentalità nel settore dell’assicurazione dei danni materiali ai beni.
In questo settore, l’accidentalità è multi-sfaccettata e sfugge ad una analisi che abbia la pretesa di chiarire in modo esauriente il senso di questo termine. Partiamo da alcuni esempi di facile comprensione.
La foratura delle gomme dell’autovettura usurate, col battistrada prossimo al livello zero, certamente non è considerato da alcuno un evento accidentale. Perché? Perché si tratta di un accadimento certo al termine di un periodo di utilizzo: non si sa esattamente quando accadrà ma si sa che accadrà prima o poi.
A pensarci bene, anche un temporale con forte vento, in grado di fare danni materiali è sicuramente un evento che prima o poi si verifica, ma non si sa quando.
I due eventi paiono avere i medesimi requisiti, ma sappiamo con certezza che sul piano assicurativo sono trattati in modo opposto. È vero che la durata delle gomme per autovetture è nota a priori. Tuttavia sappiamo che essa è nota sulla base dei chilometri utili percorribili, ma non della frequenza con la quale esse saranno utilizzate, né di quanti chilometri percorreranno ogni volta. In termini temporali, si può certamente affermare che la loro durata è un’incognita e, di conseguenza lo è anche il momento del verificarsi dell’evento dannoso.
Cos’è dunque che rende accidentale l’evento atmosferico violento ma non la foratura degli pneumatici usurati? Probabilmente il problema si risolve al di fuori dell’accezione del termine accidentale: la foratura è un evento che l’usura delle gomme rende estremamente probabile rispetto al caso della gomma nuova, quindi saremmo di fronte ad una sorta aggravamento di rischio spontaneo, mentre l’usura in sé, in assenza di foratura, non sarebbe qualificabile come danno alla gomma, in quanto è un consumo dovuto all’utilizzo, quindi la contropartita al suo prezzo di acquisto. Sulla base di queste considerazioni la foratura delle gomme è considerato un evento non assicurabile alla radice, fossero anche nuove le gomme stesse. Questa digressione fa capire dove sta una delle ragioni della nebulosità che aleggia attorno al carattere accidentale, quale condizione di assicurabilità dell’evento dannoso. Il caso della foratura delle gomme dell’auto dimostra come la non assicurabilità di un evento, ancorché in apparenza legata al carattere non accidentale dello stesso, in realtà trae le sue ragioni da aspetti del tutto diversi.
Possiamo forse affermare che una condizione di accidentalità sia l’indipendenza dell’evento dalla volontà dell’Assicurato. Quindi un danno accidentale è da intendersi non doloso? La letteratura assicurativa anglosassone fa uso dei termini
Force Majeur, tradotto in italiano forza maggiore, termine col quale si vuole esprimere l’inesorabilità di un accadimento che si verifica nostro malgrado e che si trova con particolare frequenza nei testi delle polizze (o sarebbe meglio dire delle clausole) del ramo trasporti, od anche di quello ancor più tranchant
Acts of God, tradotto in atti di Dio, termine col quale si intende non solo escludere drasticamente ogni possibile ipotesi di concorso dell’azione umana sull’accadimento, ma sottintendere che rispetto a quel tipo di eventi, l’intervento umano è irrilevante.
Restando comunque nell’ambito del costume nostrano, quindi attenendoci all’interpretazione del termine italiano accidentale, secondo l’accezione di chi lo usa, da un’analisi anche superficiale, si scopre che accidentale non è affatto l’antitesi di doloso: per meritare la qualifica di accidentale, non è sufficiente che il danno non sia doloso, deve essere anche avvenuto senza il concorso dell’assicurato e, a volte, anche delle persone del cui operato l’assicurato deve rispondere. Ma non finisce qui: occorre anche che si tratti di un evento che non era nelle facoltà dell’assicurato evitare. Occorre fare attenzione che con quest’ultima accezione si rischia di considerare non accidentale un danno che si sarebbe potuto evitare con una adeguata prevenzione. Tuttavia, il rischio che un caso del genere perda il bollino dell’accidentalità si dissolve nella incoerenza che regna incontrastata nel mondo assicurativo.
Per inciso, appare più che giustificabile che una garanzia assicurativa non operi a fronte di un danno voluto dall’assicurato, ma anche solo sul quale l’assicurato abbia tenuto un comportamento negligente nel non fare nulla che fosse in suo potere per evitare che accadesse, o quanto meno, per contenere la portata degli effetti pregiudizievoli. Detto questo, nella pratica non è certo impresa semplice capire fino a che punto il danno occorso sarebbe stato meno grave o si sarebbe potuto addirittura evitare a condizione che l’assicurato avesse tenuto una condotta più attenta e diligente, posto che, quanto maggiori sono le dimensioni dell’azienda, tanto più è probabile che l’eventuale negligenza sia da addebitare in capo non già all’assicurato o al suo legale rappresentante, bensì a soggetti nei confronti dei quali l’assicurato agisca in qualità di committente. Ma su questo particolare aspetto tratteremo più avanti.
Occorre precisare che, paradossalmente, pure il danno che fosse totalmente inevitabile potrebbe ricadere nelle esclusioni categoriche delle polizze danni materiali, come accade per il caso dei danni provocati da usura, corrosione, ossidazione e da ogni altra azione inesorabile dovuta esclusivamente allo scorrere del tempo. A questo proposito, vale la pena di menzionare un caso di larghissima diffusione, in cui l’usura è la causa quasi certa del danno, ma si finge di non saperlo: è un esempio pratico della incoerenza cui accennavo poc’anzi e mi riferisco ai danni cosiddetti da acqua condotta.
Com’è arci-noto, la garanzia si riferisce ai danni da perdita d’acqua a causa di guasti o rotture occorsi a tubazioni murate o, secondo una concessione di recente conio, anche interrate, perdita che si manifesta con le assai note chiazze di umidità.
Affinché una tubazione si rompa, è necessario che subisca una collisione con un oggetto di adeguata durezza e robustezza, ma è evidente che questo non può accadere all’interno di un muro, di una soletta o delle opere di fondazione. Resta l’ipotesi che una sua giunzione abbia ceduto sotto la sollecitazione di un sommovimento della crosta terrestre che disallinei la planarità del piano d’appoggio del fabbricato in cui si è verificato l’evento, in corrispondenza della posizione della tubazione, o peggio di un suo elemento di giunzione. Non può esistere nessuna altra causa di rottura accidentale di una tubazione incorporata nella struttura in calcestruzzo. Da ciò si deduce che se la rottura si verifica in assenza dell’evento sismico o, in genere, geologico la sola causa attendibile è l’usura. Ciò nonostante sono decenni che sinistri di questo tipo vengono liquidati nella totale indifferenza verso la stridente contraddizione. Per ironia della sorte, il testo di questa clausola aggiuntiva, propria delle polizze incendio o globali abitazioni, specifica in modo esplicito che la garanzia vale in caso di rottura accidentale di tubazioni, ecc., laddove l’accidentalità del danno non viene menzionata a livello di cappello di polizza (oggetto dell’assicurazione) nelle polizze che ospitano di norma questa condizioni aggiuntiva.
In alcuni casi, come accade in particolar modo nelle polizze infortuni, il testo di polizza si avvale dei termini sostitutivi quali improvviso, imprevisto o anche esterno. Si tratta di termini che solo in apparenza sono avulsi dalla tematica dell’accidentalità, ma in realtà essi hanno con questa un’affinità sul piano delle intenzioni dell’estensore dei testi di polizza, ossia quelle di erigere uno steccato virtuale che tenga ben separato dai rischi dei quali l’assicuratore voglia farsi carico tutto ciò che non è definibile frutto di casualità.
Col termine esterno, che fra i tre sopra citati appare il meno attinente con l’accidentalità, si vuole escludere, dalle cause di danno coperte di assicurazione, tutto ciò che è sospetto di avere origine scatenante in un vizio intrinseco. Infatti, nel caso dei danni materiali, si escludono i danni da cattivo funzionamento e nel caso delle lesioni fisiche da infortunio, le alterazioni che hanno origine di tipo patologico. Si tratta, in un caso e nell’altro, di effetti prevedibili a conclusione di un processo, assimilabile ad un deterioramento accelerato, che presumibilmente è stato innescato da un vizio originale (della cosa o della persona). La necessità di far valere questo tipo di esclusione viene però smentita da quelle polizze che coprono i danni provocati da causa endogena rispetto all’oggetto assicurato: la polizza guasti macchine, nel comparto danni materiali e la polizza spese mediche, altrimenti detta sanitaria, nel comparto danni alla persona.
Prima di procedere nel ragionamento, vale la pena di soffermarsi brevemente sugli altri due termini in uso nelle polizze infortuni. Il carattere di improvviso starebbe a significare inatteso, ovvero che coglie l’assicurato impreparato. Verrebbe spontaneo osservare che se un evento giungesse inatteso, cogliendo impreparato chi lo subisse, si dovrebbe presumere, allora anche le cautele possano non essere state messe in opera. Quanto meno, sarebbe diabolico attendersi un atteggiamento proattivo nella prevenzione nei confronti di ciò che è inatteso. Ma si tratta di una sensazione a pelle, facilitata da una istintiva diffidenza verso la cronica imprecisione che affligge il lessico assicurativo.
Il carattere di imprevisto forse non è molto distante da quello di improvviso, ma probabilmente esso, più propriamente, fa riferimento ad un accadimento del quale, pur essendo noto il manifestarsi sporadico o frequente, periodico od occasionale, non se ne può conoscere il momento della manifestazione.
Abbiamo poc’anzi accennato che il significato di non provocato con la volontà dell’assicurato non esaudisce il bisogno dell’assicuratore di tenere separato ciò che è assicurabile da ciò che, essendo affine od anche solo confondibile con l’atto doloso, non può e non potrà mai esserlo.
Un evento dannoso che, con una condotta più attenta e responsabile, forse si sarebbe potuto evitare è definibile come accidentale, oppure, la sua evitabilità lo fa ricadere nella categoria degli eventi dipendenti in qualche modo dalla volontà dell’assicurato?
E ancora, visto che un evento totalmente inevitabile rischia forse di ricadere nella categoria degli eventi certi e come tali inassicurabili, dobbiamo ritenere accidentale solo un evento che capiti con casualità imprevedibile, per il quale non era nelle facoltà dell’assicurato fare alcunché per evitare che si verificasse? Con questi presupposti rimangono ben pochi eventi che possono essere assicurati ed indennizzati, al riparo da contestazioni che possano affiorare in fase di liquidazione.

La voce del diritto nel merito della intenzionalità
Se vogliamo indagare sulla incidenza della volontà del soggetto rispetto all’accadimento suscettibile di arrecare pregiudizio, ci può venire incontro la dottrina del diritto. In questo ambito si riconoscono quattro gradi di interferenza dell’azione umana sull’accadimento.
1) Danno arrecato con colpa lieve
2) Danno arrecato con colpa grave
3) Danno arrecato con colpa volontaria
4) Danno arrecato con dolo

Se volessimo attribuire alla numerazione dell’elenco di cui sopra il significato di livello crescente di gravità, dovremmo fare precedere l’elenco stesso da un livello “0” che corrisponde al danno cosiddetto da forza maggiore, ovvero ciò che accade nostro malgrado, la locuzione forse più appagante del senso che l’assicuratore vorrebbe dare all’evento accidentale.
La differenza fra il caso del punto 3), che è scarsamente conosciuto al pubblico, ed il punto 4) sta esattamente nell’intenzionalità di pervenire al risultato pregiudizievole. Per fare un esempio pratico, un oggetto contundente lanciato con lo scopo di far male alla persona malcapitata che fa da bersaglio ricade nel caso di dolo, mentre se l’oggetto medesimo, pur lanciato con veemenza contro il medesimo malcapitato, non era concepito dall’attore come arma impropria, bensì il lancio era stato preceduto da un giocoso invito al malcapitato di afferrare al volo l’oggetto, ebbene, se a danno di chi fa da bersaglio si producesse una lesione, si ricadrebbe nel caso della colpa volontaria.
Per contro, la distinzione fra colpa grave e colpa lieve risiede nella notorietà della precauzione (non) presa. Se assumere quella misura di cautela fosse possibile solo a patto di avere una particolare competenza professionale, la colpa rimane relegata a livello lieve. Questa definizione è basata sull’assunto che, nel caso più generale, ad agire sia una persona di media scolarità, priva di una competenza professionale, nella materia cui appartiene la capacità di prevenire il danno specifico.
Rientra, invece, nel livello grave, laddove chiunque avrebbe capito che quella misura di cautela andava presa. Ne segue, a corollario la considerazione, che vorrei porre col punto di domanda, nella speranza che ne fiorisca un dibattito: la negligenza che attiene una particolare competenza professionale è da considerarsi un atto di colpa grave se a commetterlo è il professionista in possesso di quella competenza? Questo quesito riemergerà al termine della trattazione, nel cenno conclusivo che viene fatto in merito alla responsabilità civile professionale. Appare chiaro come la catalogazione che la dottrina giuridica fa delle varie gradazioni della responsabilità rischi di sconfinare nel pericoloso campo del processo alle intenzioni, precisando che ciò può accadere con maggiore probabilità laddove si fosse chiamati ad ammettere od escludere il caso di dolo. Ma proviamo ugualmente a domandarci fin dove arriva l’accidentalità di un evento, alla luce di questa catalogazione delle colpe umane, che se non altro, gode dell’attendibilità della dottrina del diritto.
Probabilmente l’assicuratore, messo di fronte a questa classificazione, sarebbe portato ad escludere tutti e quattro i casi sopra elencati dal novero degli eventi assicurabili, relegando così l’accidentalità ai soli casi in cui è del tutto assente l’interferenza dell’azione umana.
È vero che le polizze che coprono i danni ma teriali prevedono diffusamente la condizione particolare con la quale si estende la garanzia alle cause di dolo e colpa grave delle persone delle quali deve rispondere l’assicurato e colpa grave dell’assicurato stesso. Il fatto però che per rendere efficaci queste estensioni occorra inserire delle apposite condizioni particolari, non è altro che la prova che nell’intenzione prima sia contemplata l’esclusione di queste causali, esclusione che tiene vivo il pericolo di affidare ad un processo alle intenzioni il giudizio di assicurabilità dell’evento dannoso.
Visto che l’accidentalità riguarda anche la collocazione temporale di un evento che, al netto dell’incertezza del quando, risulterebbe certo, sorge la domanda se l’individuo che ha visto danneggiarsi i suoi beni, avesse potuto prevenirne in qualche modo in tutto o in parte il pregiudizio.
Qui si innesca un fattore di complessità addizionale alla trattazione del tema: L’accidentalità, intesa come qualifica che rende assicurabile l’evento, deve intendersi riferita
• alla causa scatenante,
• agli effetti pregiudizievoli che l’evento causa agli interessi dell’assicurato, oppure
• ad entrambi?

Se si riferisce solo alla causa scatenante, allora non possiamo quasi mai attribuire all’uomo una qualche capacità di evitare che l‘evento accada. Ma se vale solo una delle due ipotesi alternative, allora potremmo dire che forse l’uomo ha la possibilità di evitare almeno in parte i danni che l’evento inevitabile ha provocato.
Quanto fin qui detto lascia intendere che sono numerosi i fattori che incidono sul grado di accidentalità che l’assicuratore può tenere in considerazione per spostare l’ago della bilancia della risarcibilità del danno nel campo sfavorevole all’assicurato. Purtroppo l’assicuratore, dispiace a dirlo, ha tutto l’interesse a sostenere la causa della non risarcibilità con argomentazioni articolate e spesso difficilmente confutabili, poiché traggono legittimità da interpretazioni soggettive dei fatti stessi o anche solo delle circostanze in cui i fatti si sono consumati, argomentate in termini che non offrono lo spazio al dibattito, se non al risentito luogo comune sulla proverbiale disonestà della categoria.

L’altra faccia delle colpe secondo il diritto
Con buona pace degli esperti assicurativi che, purtroppo, spesso non hanno dimestichezza con la materia giuridica, i casi di colpa non sono solo i tre che possono apparire a prima vista, dal momento che la dottrina del diritto contempla anche le cosiddette
a) Culpa in eligendo
b) Culpa in vigilando

Sono colpe addebitabili per lo più a chi riveste il ruolo di committente e, come è noto, si tratta, nel caso di cui al punto a), della negligenza nello scegliere (in latino eligere) un soggetto abile, idoneo e professionalmente affidabile per eseguire una determinata attività dall’esercizio della quale sia sorta l’azione che ha generato il pregiudizio altrui. Un caso tipico sono i lavori edili che richiedono una particolare competenza non solo sul piano progettuale, ma anche su quello esecutivo. Una cattiva esecuzione di un progetto ancorchè correttamente formulato, può essere fonte di pericolo, nel qual caso il danno attribuito ad incapacità tecnica, si riflette sulla responsabilità del committente, cui si imputa la colpa di non aver scelto con criterio idoneo il soggetto cui affidare i lavori.
Il caso di cui al punto b), invece, si riferisce alla responsabilità in capo al soggetto che non sia stato adeguatamente vigile sull’esecuzione delle operazioni, e non abbia preso le necessarie misure di cautela affinché l’attività che abbia disposto non presenti pericoli per il pubblico.
La domanda che sorge da queste considerazioni è: quanto possono incidere le colpe definite poc’anzi sulla qualifica di accidentalità di un danno? Siamo perfettamente d’accordo con i molti lettori che, giunti a questo punto, solleveranno l’obiezione che i danni commessi con le due tipologie di colpa sopra elencate sono normalmente inclusi nella garanzia e pure liquidati in caso di sinistro nell’ambito di diverse polizze, prime fra tutte quelle di responsabilità civile. Il fatto che le fattispecie vengano incluse nella garanzia di talune polizze od anche fatte oggetto di indennizzo (o risarcimento, che dir si voglia) non ha nulla a che vedere con l’attribuzione di accidentalità ad un evento dannoso. I percorsi logici seguiti dagli assicuratori e, per loro conto, dai liquidatori, spesso si concedono disinvolte licenze poetiche rispetto a norme che essi stessi, in altre passate occasioni hanno spesso difeso ed in future occasioni, con ogni probabilità, difenderanno ad oltranza nel sostenere le ragioni della respinsione dei sinistri.

L’accidentalità in materia di responsabilità civile
Questo capitolo è quello che merita la maggiore attenzione, in quanto è dedicato al settore più ricco di contraddizioni e anomalie attorno al concetto di accidentalità. Vediamo come le cose si complicano alquanto se entriamo nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile. Cominciamo col dire che la polizza di RCT/O aziendale è quella che esprime nella forma più categorica, seppure con una eccezione sulla quale si parlerà poco più avanti, la necessità che il danno sia accidentale, affinché possa rientrare in garanzia.
In questo ambito, si parla di danni involontariamente cagionati a terzi a seguito di un fatto accidentale di cui l’Assicurato debba rispondere per legge … (omissis)
Per il solo fatto che stiamo parlando di fatti suscettibili di arrecare danni a terzi, in termini di lesioni personali o danneggiamenti a cose (cui sono curiosamente equiparati gli animali), con l’avvertenza che di tali fatti l’assicurato debba rispondere a norma di legge, diventa assai irrisorio il campo dei fatti accidentali, atteso che l’accidentalità è associata alla mancanza di interferenza non solo dell’azione dell’uomo, ma anche della sua volontà nel cagionare il danno e persino della sua diligenza a porre in atto ogni accorgimento volto a prevenire l’evento dannoso o, in mancanza di possibilità in tal senso, di evitare che l’evento dannoso provochi effettivamente i danni.
La domanda è: se non ricorre né l’azione diretta, né la volontà ad arrecare il danno, né la negligenza rispetto alle azioni volte a prevenire il pregiudizio, siamo sicuri che si possa ancora affermare che di quel danno possa l’assicurato essere chiamato a rispondere per legge? Posto che il danno verificatosi a seguito della inosservanza di norme di legge è categoricamente escluso. Posto inoltre che il termine accidentale è quanto di più fumoso ed equivoco vi sia fra le espressioni presenti nei testi di polizza, se qualcuno si accollasse l’onere di elencare tutte le fattispecie possibili nelle quali vi siano
• un soggetto danneggiato che abbia l’interesse al ristoro economico del danno patito e
• un soggetto che per legge di quel danno debba rispondere
è probabile che farebbe una enorme fatica ad individuare quei pochi casi in cui sussista la responsabilità del secondo soggetto e con essa coesista il carattere accidentale del fatto che ha provocato il danno, tenuto conto di tutti i requisiti richiesti per poter definire accidentale un danno.
Per come è impostata la polizza, almeno per la sezione RCT, potrebbe essere in teoria respinto qualsiasi sinistro. Pertanto, può risultare irridente il prosieguo del testo che enumera estensioni ed esclusioni di garanzia dalla copertura.
Vediamo come si pone il problema di definire accidentale un danno cagionato a terzi da un difetto del prodotto dopo la sua consegna.
Va da sé che in ambito di RC Prodotti, si faccia riferimento a difetti sorti in fase di produzione o anche insiti nei componenti entrati a monte del processo di trasformazione in qualità di materie prime, a livello di vizio intrinseco, ma sempre con l’avvertenza che, tanto il vizio del materiale in entrata quanto l’anomalia sorta nel corso del processo di trasformazione fossero sfuggiti all’attenzione dell’assicurato, ossia delle persone preposte al controllo di qualità. L’accidentalità è dunque ammessa in questo caso come frutto della disattenzione di chi avrebbe dovuto sorvegliare sulla presenza di anomalie all’origine o determinatesi in fase di manipolazione? La risposta non è certa, né scontata, in quanto dipende dal caso e da come gli organi decisionali interpretano il caso specifico. In sede di valutazione peritale del sinistro, chi potrebbe impedire all’organo decisionale dell’ufficio liquidativo di non riconoscere l’indennizzabilità di una danno laddove emergesse il concorso della negligenza di chi era preposto a controllare?
Seppure sia assolutamente vero che, a dispetto di ogni considerazione del tipo di quelle esposte nella presente trattazione, si può sostenere e dimostrare che in taluni casi i sinistri vengono ugualmente pagati, nonostante tutto, non possiamo accettare un equivoco latente in grado di minare l’operatività delle coperture di tutto il comparto della responsabilità civile nascondendoci dietro al fatto che il problema si supera attraverso una applicazione disinvolta e soggettiva delle norme vigenti!
La coesistenza delle condizioni antitetiche dell’accidentalità del fatto che ha originato il danno e della responsabilità civile dell’assicurato assume toni di particolare criticità in ambiti come l’inquinamento accidentale, per il quale il termine accidentale, volutamente ribadito, è ulteriormente condizionato dalla tempistica con la quale il personale preposto alla sicurezza ambientale interviene nelle azioni di contenimento delle sostanze inquinanti fuoriuscite dalle loro opportune sedi.
Quello che, nella terminologia assicurativa si contrappone all’inquinamento accidentale, è l’inquinamento graduale, il quale, sia ben chiaro, non è solo quello che è generato dalla presenza di impianti che non contengono a sufficienza la fuoriuscita delle sostanze contaminanti, accrescendo giorno per giorno il tasso di inquinamento dell’eco-sistema.
Va osservato infatti, che se da un episodio di guasto improvviso ed accidentale agli impianti di contenimento della fuoriuscita delle sostanze potenzialmente inquinanti, deriva la dispersione delle sostanze nel terreno, nell’acqua o nell’aria e questa avesse modo di propagarsi per qualche giorno, prima che il responsabile di stabilimento se ne avveda, la deontologia assicurativa qualificherebbe quell’evento come inquinamento graduale. Ciò in virtù del fatto che il protrarsi nei giorni della fuoriuscita di sostanze contaminanti e della loro immissione nell’ambiente genererebbe un fenomeno non più istantaneo, ma di accumulo progressivo degli agenti inquinanti.
È curioso come, nell’ambito della contaminazione ambientale e della responsabilità ad essa inerente, l’accadimento debba possedere dei requisiti ulteriormente restrittivi per meritare la qualifica di accidentale.
È ancor più curioso che l’inquinamento graduale, che per definizione assicurativa è considerato non accidentale, sia un evento che può rientrare nelle garanzie di polizza. Abbiamo forse sbagliato la premessa, dicendo che l’accidentalità è una delle condizioni fondamentali perché un evento dannoso sia assicurabile? Chi opera da lungo tempo nel mondo assicurativo, ed abbia un discreto spirito di osservazione critica, sa che in questa professione esistono contraddizioni eclatanti, al pari e anche più di questa, tenute in vita da giustificazioni che senza contraddire le affermazioni contrarie di altre polizze, semplicemente si appellano a principi da far valere su piani diversi.
È molto interessante osservare che nell’ambito della sezione RCO – responsabilità civile verso prestatori di lavoro, l’accidentalità non è un requisito richiesto affinché il pregiudizio possa rientrare nei casi coperti di garanzia assicurativa. Proviamo a domandarci il perché di questa disparità di giudizio e di trattamento.
La sezione RCO copre tradizionalmente l’assicurato delle somme dovute a fronte dell’esercizio del diritto di regresso a parte dell’INAIL, per infortuni occorsi al personale nell’esercizio della loro attività. In tempi non più così recenti, sono state introdotte nuove estensioni, divulgate sotto il celebre termine di danno biologico, che a dispetto di chi lo pronunciava con fierezza nel sentire di averne la padronanza, diventava sempre più insufficiente a definire l’ambito delle estensioni con le quali i testi di polizza tentavano di rincorrere il rapido evolversi della giurisprudenza. In ragione di questa tipologia di estensione, la sezione RCO ha via via compreso anche le azioni dirette di risarcimento da parte dei dipendenti colpiti da infortunio o da parte dei loro aventi causa. Tuttavia, occorre ricordare che tali azioni attengono accadimenti che, in primis, hanno coinvolto l’INAIL e solo in seconda istanza, l’azione di regresso compiuta da tale Istituto.
Ordunque, nell’esercizio del diritto di regresso (previsto dall’art. 1916 c.c.) non si pongono più questioni in merito alle modalità con le quali il danno si è consumato, in quanto al momento della richiesta inoltrata dall’INAIL all’assicurato, quella fase dell’esame dei fatti è superata, e l’INAIL si limita a ripetere la somma pagata, non a titolo di una copertura di responsabilità civile, ma in qualità di assicuratore diretto di una lesione da infortunio, in cui l’accidentalità del fatto non si interseca con un problema di stima di quanto abbia inciso la volontà o la negligenza del soggetto assicurato, colpito da infortunio.
Come si è accennato poc’anzi, la sezione RCO opera non solo a fronte dell’azione di regresso dell’INAIL, ma anche in funzione di copertura di responsabilità civile propriamente detta, laddove si riferisca all’azione di risarcimento esperita dal dipendente che abbia subito l’infortunio sul lavoro oppure, in caso di decesso di quest’ultimo, dai familiari o, più in generale, dai cosiddetti aventi causa. In questo particolare ambito, ci troviamo di fronte ad una situazione che per nulla differisce dal campo di operatività della sezione RCT, in cui l’accidentalità è una condizione basilare per l’efficacia della garanzia, per la quale invece, la rilevanza del carattere accidentale dell’evento dannoso è derogata. Si tratta di una deroga che non trae le proprie ragioni dalla tipologia del caso in esame ma, più pedestremente, dall’appartenenza contrattuale ad un comparto di polizza ai cui regolamenti si attiene a costo di perderne il fondamento logico. Vale la pena di soffermarsi anche sul caso particolare della responsabilità civile professionale. Questa, per sua natura copre l’assicurato di quanto debba pagare a terzi per danni provocati palesemente da errore od omissione, quindi non esiste nessun evento ivi contemplato che possa dirsi totalmente casuale, nel senso che si è cercato di dare al termine accidentale.
L’intero oggetto della garanzia attiene accadimenti riconducibili ad errore o negligenza della persona, nell’esercizio della professione. Siamo proprio di fronte al caso pratico sul quale ho posto più sopra il quesito, circa l’assimilabilità alla catalogazione di colpa grave del caso di negligenza che attiene un campo di competenza professionale, laddove a commetterla è proprio il professionista depositario di quella competenza …