di Roberto Sommella

Meglio il Tfr oggi o la pensione domani? I lavoratori italiani sono pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche? Sta tutto nella risposta a queste domande il senso della norma della legge di Stabilità voluta dal premier per mettere in busta paga un altro po’ di liquidità grazie al versamento (opzionale) di una parte del Trattamento di Fine Rapporto, operazione che diventerà operativa dal primo marzo. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa. Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del pil, che comporta minori pensioni future e di conseguenza la necessità di maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi.

 

Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non beve e sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi consegnati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si sono tramutati in maggiori prestiti e l’attesa per il Qe a questo punto è spasmodica. Ad oggi, complici i bassissimi tassi d’interesse, i risparmiatori tendono a mantenersi molto liquidi in attesa che risalga il costo del denaro e con esso la remunerazione degli investimenti finanziari. Prova ne è che dal 2007 a oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti è aumentato del 9,2% a 234 miliardi. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Tfr, che nel 2014 è ammontato a 26,9 miliardi (9,8 parcheggiati nelle aziende, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti nei fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che più ci rimetterebbero perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese.

 

Ma gli italiani temono di più il presente o il futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione. A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Nel 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28%, per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole utilizzare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più e che vale la rinuncia alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ossia da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%.

 

Ma nonostante ciò le adesioni non sono mai decollate e oggi soltanto un quarto degli occupati italiani è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e tra le donne, ossia proprio tra le categorie più bisognose di un’integrazione e più colpite da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto. L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del prodotto interno lordo. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come avvenuto per esempio nel 2013 e nel 2014, si avrà una rendita minore.

Qualche esempio: un lavoratore dipendente che oggi ha trent’anni e che lascerà l’attività a 68 anni e 9 mesi, avrà una pensione pari al 64% dell’ultimo stipendio (46% nel caso di un lavoratore autonomo) se il pil nel frattempo crescerà dell’1,5% medio annuo; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% (nel caso del dipendente) e al 38% (autonomo) dell’ultima busta paga se invece il prodotto interno lordo italiano si limiterà a un rialzo medio annuo dello 0,5% (ossia più o meno quanto viene stimato nel 2015 dalle ultime previsioni della Banca d’Italia e della Commissione Europea).

 

La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La scelta del Tfr in busta paga contribuirà ad aumentare le spese delle famiglie italiane e dunque in qualche misura anche la crescita del Paese? C’è poi da tenere presente il fisco, visto che la tassazione del Quir (Quota di trattamento di fine rapporto) sarà quella ordinaria Irpef e non agevolata, dunque conveniente solo per chi percepisce un reddito annuo inferiore ai 28 mila euro lordi. E sarà curioso anche valutare come si muoveranno le piccole e medie imprese quando dovranno sostituire il capitale dei dipendenti con la garanzia bancaria assistita da un apposito Fondo statale. Il governo ha avuto un certo coraggio a promuovere la misura sul Tfr, ora bisogna vedere come reagiranno i governati. (riproduzione riservata)