di Antonio Ciccia e Alessio Ubaldi  

 

Risponde del reato di sostituzione di persona chi, inserendo in un profilo social l’altrui immagine, intrattenga conversazioni con i conoscenti del defraudato oppure lo danneggi lasciando intendere che i comportamenti impietosi e offensivi tenuti sulla rete siano a lui imputabili.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 25774, depositata il 16 giugno 2014.

Nel caso di specie un uomo ha utilizzato la foto di altro soggetto per completare un profilo di fantasia su un social network.

Il furto di immagine ha tratto in errore coloro che solitamente comunicavano con il vero titolare del ritratto. Da qui la querela sporta alla procura, e l’inizio di un procedimento penale con l’accusa di aver commesso il reato di sostituzione di persona. All’esito del giudizio di primo grado, il tribunale, accertata l’illiceità penale della condotta, ha condannato l’imputato per il reato lui contestato. La decisione è stata, poi, confermata dalla Corte d’appello, adita infruttuosamente dalla difesa. A quest’ultima non è rimasto che rivolgersi in ultima istanza alla Cassazione, cui è stato chiesto l’annullamento della decisione emessa dalla corte territoriale. In dettaglio, ai giudici di legittimità è stata evidenziata l’assenza, nel caso di specie, del fine specifico che avrebbe dovuto sorreggere la condotta incriminata, e cioè il fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno. L’imputato, a dir della difesa, si sarebbe limitato a utilizzare l’immagine senza abbinarla al nominativo del suo titolare, e soprattutto avrebbe agito senza la finalità di trarre particolari vantaggi o danneggiare qualcuno.

La Corte, nel confermare la sentenza di condanna, ha, anzitutto, ricordato come il reato di sostituzione di persona (art. 494 del codice penale) si ponga a difesa non solo della fede privata e del buon nome della vittima, ma anche della fede pubblica, riconducibile alla generalità dei consociati, i quali non devono essere sorpresi con inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali.

L’aver intrattenuto conversazioni utilizzando l’effigie di altro soggetto, aggiungono i giudici, rappresenta un comportamento idoneo a integrare il delitto anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, dati i vantaggi traibili dall’attribuzione di una diversa identità: nel caso di specie, infatti, l’imputato, proprio grazie alla sostituzione architettata, era riuscito a intrattenere rapporti con diverse persone (perlopiù di sesso femminile), così soddisfacendo la propria vanità; ma la Corte ha dedotto dalla strumentalizzazione dell’effigie finanche un danno a carico del titolare, dato dalle reazioni aggressive di alcuni membri della chat suscitate da commenti ineducati dello stesso imputato, spacciatosi per la vittima del reato.

La decisione in rassegna si pone in linea con altre decisioni che hanno riguardato l’utilizzo non autorizzato dei dati personali o dell’altrui immagine in casi limitrofi, come l’account di posta elettronica o l’iscrizione in una chat line a luci rosse; ipotesi tutte connotate dalla descrizione, da parte del soggetto agente, di un profilo poco lusinghiero che consente di riconoscere, oltre all’intento di conseguire un vantaggio non patrimoniale (l’intrattenimento di conversazioni con persone tratte in inganno dalla sostituzione), quello di recare un danno all’altrui reputazione per effetto dell’utilizzo, oltre che abusivo, distorto dei dati o dell’effigie del vero titolare.

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