di Roberta Castellarin e Paola Valentini   

Sarà per l’età, sarà perché da presidente della Provincia, prima, e da sindaco di Firenze, dopo, ha avuto per molti anni uno stretto legame con il territorio, fatto sta che Matteo Renzi nel suo discorso da premier incaricato è stato il primo che ha parlato dei problemi della sua generazione, quella nata negli anni 70.

La sua azione di governo, ha detto Renzi, sarà impostata «partendo dall’emergenza più importante che riguarda la mia generazione, che è l’emergenza dell’occupazione e della rassegnazione». Contro questi due elementi Renzi vuole combattere perché da non ancora 40enne vive meglio dei premier che lo hanno preceduto la crisi del mercato del lavoro che impedisce all’Italia di rilanciare la crescita dell’economia. Più occupazione vuol dire anche un maggior reddito che il Paese ha a disposizione per pagare i servizi pubblici. Un’elevata disoccupazione invece impoverisce anche lo Stato, che può contare su un minor gettito fiscale da utilizzare per fornire ai cittadini welfare, sanità, istruzione e così via.

 

Basti un esempio: in Germania su una popolazione di 80 milioni di persone, gli occupati sono 40 milioni. Quindi ogni lavoratore ne mantiene un altro. In Italia gli occupati sono 23 milioni su un totale di 60 milioni di persone. Il che vuol dire che qui il rapporto è di uno a tre.

Dunque l’Italia per arrivare al livello della Germania dovrebbe avere 7 milioni di occupati in più. La disoccupazione sottrae ricchezza non solo ai cittadini ma anche alle casse dello Stato. E alle casse degli enti previdenziali. La riforma Monti-Fornero ha apportato tagli rilevanti alla spesa previdenziale, i cui effetti si vedranno nei prossimi anni in termini di importo degli assegni erogati. Ma in termini di numero di pensionati le conseguenze si sono viste subito. A parte la vicenda degli esodati a cui si è cercato di porre rimedio, lo scorso anno c’è stata una prima forte riduzione del numero di persone che sono andate in pensione proprio per effetto della legge Monti-Fornero, che dal gennaio 2013 ha spostato il momento del ritiro in avanti anche di cinque-sei anni. Senza dimenticare che l’ex ministro del welfare ha introdotto per tutti il sistema contributivo di calcolo della pensione. Negli assegni liquidati in questi primi anni post riforma, gli effetti sull’importo saranno limitati perché il sistema contributivo è pro-quota, quindi la pensione viene calcolata con il contributivo soltanto a partire dai contributi versati dopo il 2012. Un sistema che si applica a chi, prima del 2012, ricadeva nel ben più generoso metodo retributivo, ovvero che al gennaio 1996 aveva più di 18 anni di contributi. I nuovi pensionati appartengono quindi per la maggior parte a questa fascia di lavoratori ex retributivi.

 

Diversa e più dolorosa la situazione della generazione Renzi, quella occupata dopo il 1996. In questo caso l’assegno non è più determinato in base al metodo retributivo (che assegnava una pensione che poteva arrivare fino all’80% dell’ultimo stipendio), ma in base ai contributi versati.

E quindi carriere precarie e caratterizzate da buchi contributivi, come quelle che oggi vivono molti giovani, producono in futuro una pensione da fame. Lo stesso accade se si inizia tardi a lavorare. Senza dimenticare che per i lavoratori del sistema contributivo non sono più previste integrazioni sociali o maggiorazioni al minimo, di cui invece godono i cittadini che ricadono nel sistema retributivo. Anche chi ce l’ha fatta e ha retribuzioni molto alte deve fare i conti con il meccanismo dei massimali contributivi (pari a 100.123 euro nel 2014). Quando la retribuzione supera tale soglia non si versano più contributi, e dunque l’assegno pensionistico non sale ulteriormente. Di fatto quindi quelli della generazione Renzi non potranno avere pensioni d’oro anche se avranno alle spalle carriere importanti.

 

Se a ciò si aggiunge che i contributi accantonati si rivalutano ogni anno in base al pil dell’Italia, è evidente il legame tra la forza economica del Paese e i futuri assegni Inps. La crisi infatti ha provocato negli ultimi anni una perdita di pil dell’8% che peserà non poco sulla rivalutazione del montante previdenziale di chi oggi ha da 30 a 40 anni. E che ha quindi anche meno anni per recuperare. La società di consulenza indipendente Progetica ha simulato per MF Milano Finanza la pensione che si potranno attendere i lavoratori della generazione Renzi, ovvero i nati nel 1975. Una simulazione che si può estendere anche ai nati di tutto il decennio compreso tra il 1970 e il 1980. «Poiché le differenze tra i nati del 1970-1975-1980 non sono particolarmente rilevanti, ci siamo concentrati sul suo anno di nascita, facendo una busta arancione per i nati del 1975 che hanno iniziato a lavorare a 25 anni o a 30 anni», spiega Andrea Carbone di Progetica. Nello schema di busta arancione elaborato da Progetica c’è dunque la stima della data di pensionamento e dell’ammontare dell’assegno pensionistico (per dipendenti e autonomi con un reddito netto mensile attuale di 2 e di 4 mila euro) in funzione dell’andamento di carriera e del pil. «Abbiamo inoltre stimato l’ammontare medio di un buco contributivo in quattro casistiche: tre anni dai 25 ai 35 (poi 35-45 e 45-55), fino all’interruzione dell’attività lavorativa a 60 anni», dice Carbone. Progetica ha effettuato due simulazioni anche su quanto è necessario versare alla previdenza complementare per farsi una scorta. La prima calcola il versamento mensile necessario per avere 100 euro al mese dalla previdenza complementare. La seconda quanto bisogna versare per avere un’integrazione di 1.000 euro sempre mensili. L’analisi stima una possibile busta arancione per i nati e le nate del 1975, che hanno iniziato a lavorare a 25 anni, con un reddito mensile attuale di 2 mila euro netti. E un’altra per chi ha iniziato a 30 anni a lavorare e guadagna 4 mila euro netti.

 

L’analisi di Progetica rivela che per quanto riguarda il quando, l’oscillazione tra il 2040 e il 2042 dipende dai differenti scenari di crescita della speranza di vita: da un lato Istat previsionale basso, dall’altro i dati Istat storico. La stima dell’importo dell’assegno pensionistico varia invece in funzione dell’andamento di carriera e del pil. Entrambi i fattori sono decisivi: più la carriera sale, maggiore sarà la differenza tra l’assegno pensionistico e l’ultima retribuzione. Questo accade perché i contributi versati sono proporzionali al reddito: più sale il reddito, meno il montante contributivo riesce ad adeguarsi all’aumento di salario. Il pil è invece rilevante perché è il motore di rivalutazione dei contributi: migliore è l’andamento dell’economia italiana, maggiore sarà la pensione percepita. Inoltre eventuali buchi contributivi possono avere effetti rilevanti: dai 50 ai 158 euro al mese per buchi di tre anni, fino agli oltre 200 euro in caso di interruzione anticipata dell’attività lavorativa a 60 anni.

La necessità di pensare a una scorta riguarda anche chi oggi ha retribuzioni elevate. Per esempio un lavoratore dipendente con uno stipendio lordo di 90 mila euro, che a fine carriera sarà arrivato ad avere una retribuzione netta di 8.250 euro avrà un assegno di 4.019 euro nella migliore delle ipotesi (ossia un ritmo di crescita del pil del 3%) e di 2.632 se l’economia è a crescita zero. In entrambi i casi cifre lontane dall’ultimo stipendio. «Sarebbe pertanto utile», conclude Carbone, «accantonare a fini pensionistici parte della retribuzione sulla quale non si versano contributi, per esempio tramite la previdenza complementare». (riproduzione riservata)