Il quadro che emerge dal 59° Rapporto del Censis è quello di un’Italia alle prese con una fase complessa: una ‘età selvaggia, del ferro e del fuoco’, dove pulsioni profonde, incertezze geopolitiche e fragilità economiche ridisegnano il tessuto sociale più delle dinamiche tradizionali della crescita. Il rapporto individua fratture strutturali, dalla percezione del declino europeo al peso del debito, dalla difficoltà del ceto medio alla trasformazione del lavoro. Ma mostra anche un Paese che, pur esposto a rischi inediti, continua a cercare traiettorie di vitalità e adattamento.

Il Censis individua fenomeno che riguarda tutto l’Occidente, ma nel caso italiano è aggravato da una crescita demografica negativa, dall’invecchiamento della forza lavoro e da una produttività stagnante: il grande debito. L’Italia spende 85,6 miliardi l’anno in interessi, più di quanto destina agli investimenti pubblici, e dieci volte quanto investe in protezione ambientale. È un peso strutturale che riduce i margini di manovra e inaugura, secondo il rapporto, il ‘secolo delle società post-welfare’. Nel 2024 il debito pubblico ha toccato un nuovo massimo, 3.081 miliardi, mentre la spesa per interessi è salita al 3,9% del Pil, quota più alta dell’Eurozona dopo l’Ungheria. Per l’81% degli italiani occorre colpire i giganti del web che non pagano abbastanza tasse: un segnale della domanda crescente di equità fiscale.

Il Rapporto fotografa poi il disagio del ceto medio, che vede restringersi progressivamente il proprio spazio economico. In vent’anni il numero dei titolari d’impresa è crollato del 17%, mentre il reddito reale delle piccole attività ha continuato a scendere, assestandosi al 14% del Pil. La stagnazione salariale completa il quadro: nel 2024 il valore reale delle retribuzioni è ancora inferiore dell’8,7% rispetto al 2007. Il potere d’acquisto, nonostante un parziale recupero negli ultimi due anni, risulta ridotto del 6,1% nell’arco di un quindicennio. È una febbre silenziosa che alimenta timori di retrocessione sociale e riduce la capacità delle famiglie di sostenere consumi e investimenti.

Allo stesso tempo, il sistema produttivo affronta un lungo autunno industriale. La manifattura ha registrato tre anni consecutivi di calo, con contrazioni marcate in settori chiave come tessile, meccanica, metallurgia e trasporti. Solo l’alimentare mostra una tenuta strutturale, mentre comparti legati alla difesa registrano un incremento significativo, con la produzione di armi e munizioni salita del 31% nei primi nove mesi del 2025. È un segnale che riflette le nuove priorità geopolitiche e le pressioni esercitate dagli alleati europei e dalla Nato sui bilanci nazionali.

Nel mercato del lavoro il cambiamento è altrettanto profondo. L’aumento dell’occupazione degli ultimi due anni è trainato quasi esclusivamente dagli over 50: rappresentano oltre l’80% dei nuovi occupati nel 2023-2024. Nel 2025 continua a diminuire l’occupazione giovanile e cresce il numero degli inattivi, mentre gli indicatori di produttività, già deboli, tornano a peggiorare. Si tratta di un modello di crescita sbilanciato, fondato sull’allungamento della vita lavorativa più che sull’ingresso di nuove competenze.

Il Censis analizza anche il tema dell’immigrazione, spesso al centro del dibattito pubblico. In Italia vivono oltre 5,4 milioni di stranieri, il 9,2% della popolazione, ma il 35,6% di loro si trova sotto la soglia di povertà. La sovraqualificazione dei lavoratori immigrati laureati supera il 55%, segnale di un mercato del lavoro che non riesce a valorizzare competenze che altrove alimentano produttività e crescita. Al tempo stesso, prevale nella popolazione un atteggiamento restrittivo: il 63% chiede di limitare i flussi in ingresso e più della metà percepisce gli stranieri come una minaccia per l’identità culturale.

Pur consapevoli delle fragilità sistemiche, gli italiani mantengono un approccio vitale alla quotidianità, con una forte inclinazione al piacere, alla socialità, alla ricerca di benessere personale. È un contrappeso sociologico che contribuisce a evitare derive radicali e a tenere il sistema lontano da forme di estremismo comparabili a quelle osservate in altri Paesi occidentali.

Il rapporto rileva anche quanto sia diventato prioritario per i genitori investire risorse economiche per rendere meno faticosa la corsa a ostacoli dei figli nella vita. Il 78,7% dei genitori dichiara di investire per costruire un futuro più sereno per figli e nipoti, il 66,0% risparmia per finanziare spese importanti come il matrimonio o l’acquisto della prima casa dei figli, il 63,4% spende per le loro attività extrascolastiche. Si tratta di una vera e propria cultura dell’investimento familiare, che trova nel risparmio il motore necessario per supportare i figli nella transizione alla condizione adulta. Tuttavia, l’impegno si misura con un clima di aspettative decrescenti. Il 49,8% dei genitori crede che in futuro la condizione economica dei figli sarà peggiore della propria, solo il 29,1% pensa che sarà migliore e il 17,6% uguale. Il 52,7% dei genitori ritiene che i propri figli, e i giovani italiani in generale, farebbero meglio a cercare un lavoro all’estero.

Il sistema di welfare non garantisce più coperture ampie. Così, il 78,5% degli italiani teme che, se si trovasse in condizione di non autosufficienza, non potrebbe contare su servizi sanitari e assistenziali adeguati. Lo stesso vale per i rischi ambientali: il 72,3% crede che, in caso di eventi atmosferici estremi o catastrofi naturali, gli aiuti finanziari dello Stato sarebbero insufficienti. Di conseguenza, il 54,7% si dichiara disposto a destinare fino a 70 euro al mese per tutelarsi dal rischio di non autosufficienza, dai danni legati al cambiamento climatico o da altri eventi avversi. Il 52,3% ritiene di poter ristrutturare i propri consumi, riducendo alcune spese per destinare quanto risparmiato all’acquisto di strumenti assicurativi (vita, salute, non autosufficienza).

La disponibilità, tuttavia, non si traduce in comportamenti concreti: il 70,0% degli italiani non sta facendo nulla sul piano finanziario o assicurativo per tutelarsi in caso di non autosufficienza. Solo il 10,7% si dice pronto a ricorrere a polizze assicurative per affrontare questa eventualità. La maggioranza sceglie soluzioni alternative: il 37,2% si limita a dire che ci penserà se e quando accadrà, il 34,5% ricorrerà ai risparmi, il 22,0% conterà sul welfare pubblico, il 19,9% sull’aiuto dei familiari, il 14,7% su amici e volontari.

La longevità è diventata una silenziosa componente essenziale del welfare informale, inteso come l’insieme delle attività di cura e sostegno economico che si sviluppano al di fuori dei canali istituzionali e del mercato, affidandosi alla rete familiare. Il 43,2% dei pensionati garantisce regolarmente aiuti economici a figli, nipoti o parenti. Il 61,8% ha versato (o ha intenzione di farlo in futuro) un contributo economico a figli o nipoti per sostenere spese importanti, come l’anticipo per l’acquisto della casa. D’altra parte, il 54,2% degli italiani ritiene giusto indicizzare all’inflazione anche le pensioni di valore superiore ai 2.500 euro lordi: idea che riflette la consapevolezza che le pensioni non sono rendite eccesive, perché danno supporto anche a figli e nipoti.

I longevi italiani appaiono sobri nella gestione delle risorse: il 94,2% è cauto nelle spese e tende a risparmiare per affrontare eventuali malattie o condizioni di non autosufficienza, l’89,7% si dichiara attento nella gestione dei propri risparmi a causa della persistente incertezza economica, l’82,2% esercita un controllo accurato e costante del bilancio familiare, monitorando le entrate e le uscite. Si registra inoltre la disponibilità di molti anziani a restare attivi anche dopo il pensionamento: il 72,6% degli attuali pensionati vorrebbe poter continuare a lavorare, ma senza penalizzazioni fiscali.