PREVIDENZA

Autori: Maria Elisa Scipioni e Alberto Cauzzi
ASSINEWS 380– Dicembre

+4,04% nel 2025, ma non basta

A trent’anni dall’entrata in vigore della Riforma Dini, considerata la riforma per eccellenza delle pensioni, l’Italia è ormai entrata  a pieno titolo nell’era del sistema pensionistico interamente contributivo, che oggi costituisce il principale metodo di calcolo per  la determinazione delle prestazioni pensionistiche.

Il calcolo dell’importo della pensione si basa sulla somma di tutti i contributi versati nella vita lavorativa. Questa modalità di  calcolo si contrappone al precedente calcolo retributivo che ha  come parametro di riferimento la retribuzione media degli ultimi anni antecedenti il pensionamento.

Tra i principali fattori, che incidono su tale sistema di calcolo,  c’è la crescita della ricchezza del Paese: il cosiddetto prodotto  interno lordo (PIL). Nello specifico questa grandezza riguarda la fase di vita attiva del lavoratore, ossia il momento in cui si versano e si accumulano i contributi.

Di fatto, con il sistema di calcolo contributivo, per ogni posizione previdenziale si apre una sorta di conto individuale, dove figurativamente vengono accumulati i contributi previdenziali.

La pensione del lavoratore è data dalla sommatoria dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, capitalizzati alla media  quinquennale del Pil nominale e moltiplicati per il coefficiente di trasformazione stabilito dalla  legge in base all’età del soggetto al  momento del pensionamento.

Il calcolo contributivo “doveva”  rappresentare la garanzia di sostenibilità del sistema pensionistico nel problematico futuro della  previdenza, perché a differenza  dei sistemi reali a capitalizzazione, ove gli investimenti generano  un rendimento sul mercato, qua il  rendimento è garantito dalla performance economica del Paese.

Quanto stabilito trent’anni fa con  la Legge Dini faceva riferimento  a un’aspettativa, eccessivamente  ottimistica, di continua e stabile  crescita economica dell’Italia.

Le  analisi tecniche allegate alla Legge, infatti, definirono un punto di riferimento fondamentale per la  sostenibilità del sistema: il calcolo contributivo avrebbe garantito importi equiparabili a quelli erogati col sistema retributivo qualora la crescita annuale del Paese si fosse mantenuta intorno all’1,5%  reale.
E dal 1995 a oggi tale previsione è stata,  ahimè, disattesa.

Va specificato che il sistema di calcolo contributivo solo apparentemente utilizza i parametri della  capitalizzazione; in realtà, il sistema di finanziamento della previdenza pubblica continua a essere a ripartizione: i contributi incassati vengono e  verranno immediatamente utilizzati per pagare le  pensioni in essere.

La capitalizzazione dei contributi versati, quindi  la redditività degli stessi, avviene sulla base del  Prodotto interno Lordo del nostro Paese. Possiamo pertanto affermare che dall’evoluzione del  PIL dipende in misura rilevante l’entità del futuro assegno pensionistico di chi oggi lavora.

Il tasso di rivalutazione applicato al montante  dei contributi è calcolato sulla base della media  quinquennale del PIL nominale, ossia il valore della produzione a prezzi nominali (comprensivi dell’inflazione). È il PIL reale, il valore della  produzione a prezzi costanti (depurati dall’inflazione), invece a misurare l’effettiva crescita economica del Paese.

Perciò, quando l’inflazione è  alta, come sta accadendo negli ultimi anni, il PIL  nominale può sembrare elevato, offrendo quindi  una rivalutazione apparentemente importante,  ma la pensione, pur essendo più alta nominalmente, può risultare insufficiente in termini reali,  in quanto l’inflazione erode il potere d’acquisto.

Pertanto, questo meccanismo consente di attenuare picchi, positivi e negativi, in un singolo  anno, garantendo sì una maggiore stabilità, ma ritardando l’effetto traslandolo sugli anni futuri.

Con la nota prot. 1915604/2025, pubblicata sul  sito del Ministero del lavoro, l’ISTAT ha reso  noto il tasso di capitalizzazione relativo all’anno 2025.
Nello specifico il tasso medio annuo composto di variazione del prodotto interno lordo  nominale, nei cinque anni precedenti il 2025,  è risultato pari a 0,040445 e, pertanto, il coefficiente di rivalutazione è pari a 1,040445.

Ciò sta  a significare che, per i lavoratori che andranno in  pensione a partire dal 1° gennaio 2026, il montante accumulato al 31 dicembre 2024 dovrà essere rivalutato per tale valore; mentre i contributi  versati nell’anno 2025 non saranno oggetto di  alcuna rivalutazione.
Detto in parole povere un  montante contributivo di 200.000 euro al 31 dicembre 2024 varrà 208.089 euro.

Dall’introduzione del sistema di calcolo contributivo, solo in due occasioni il coefficiente è stato negativo, nel 2014 e nel 2021.
Nell’anno 2014  per la prima volta l’ISTAT aveva comunicato un  tasso di capitalizzazione negativo: “il tasso annuo  medio composto di variazione del prodotto interno  lordo nominale, nei cinque anni precedenti il 2014,  risulta pari a – 0,001927 e, pertanto, il coefficiente di rivalutazione 2014 del montante contributivo  maturato al 31 dicembre 2013 è pari a 0,998073”.

In termini riduttivi ciò stava a significare che per  chi aveva maturato al termine del 2013 un montante di 100.000 euro, la pensione era calcolata su 99.807 euro per effetto della svalutazione.

L’allora Governo decise così di intervenire in merito con il decreto legge 65/2015 (Decreto Poletti) congelando la svalutazione e stabilendo che in tali circostanze debba essere applicato un tasso  di rivalutazione comunque pari a 1.
Mentre nel  2021 il tasso non applicato fu recuperato sulla  rivalutazione dell’anno successivo.

Di sicuro, un coefficiente di rivalutazione oltre  il 4% segue l’onda positiva dei precedenti anni:  +3,6% nel 2024 e +2,3% nel 2023.
Tuttavia, va  ricordato che riflette la dinamica di un PIL nominale in anni in cui l’inflazione registrata è stata  del 5,5% nel 2023 e addirittura dell’8,09% nel  2022.
Però nel 2024 l’inflazione si è assestata al  1%, cosicché la rivalutazione reale questa volta  sarà nell’ordine del 3%.

In un momento storico in cui si prospettano incrementi del PIL reale tra lo 0,6-0,8%, la metà di  quanto paventato dal legislatore nell’ormai lontanissimo 1995, il divario tra ciò che un pensionato si attendeva all’epoca (circa l’80% dell’ultima retribuzione) e quanto invece spetterà alle  future generazioni diventa sempre più ampio.

I  governi sono chiamati perciò a intervenire su un  sistema che ad oggi vacilla, perché le condizioni economiche di un tempo purtroppo non sono state confermate e nel lungo periodo la stabilità  che si voleva garantire potrebbe venir meno.


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