CLIMATE CHANGE

Autori: Marco Dimola e Giulia Madonini
ASSINEWS 380– Dicembre 2025

TRA EVOLUZIONE GIURIDICA E NUOVE FORME DI RESPONSABILITÀ

Il contenzioso climatico: definizione del fenomeno e incidenza

Il fenomeno del cosiddetto climate change litigation ha oramai  assunto un ruolo centrale nel panorama giuridico globale e si è imposto come una delle nuove frontiere dell’evoluzione del diritto.

In un contesto segnato dall’urgenza della crisi climatica e dall’insufficienza delle risposte politiche, i tribunali vengono sempre più spesso chiamati a colmare i vuoti normativi, contribuendo a ridefinire i confini – o, meglio, le “frontiere mobili” – della responsabilità civile e pubblica.

Questo spostamento non è soltanto geografico, con contenziosi che si moltiplicano in ogni continente, ma anche concettuale: si assiste a una progressiva estensione dei soggetti potenzialmente responsabili, delle condotte giuridicamente rilevanti e delle situazioni giuridiche meritevoli di tutela.

In tale scenario, il diritto si configura come uno strumento dinamico di giustizia climatica, ma anche come terreno di tensione tra innovazione e certezza, tra esigenze di tutela e limiti sistemici. Prima di analizzare il fenomeno, appare utile definirne i contorni.

Sebbene non esista, ad oggi, una definizione univoca di climate change litigation, si può fare riferimento al Global Climate Litigation Report: 2025 Status Review del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che include in tale categoria tutte le controversie giudiziarie o quasi giudiziarie nelle quali il cambiamento climatico costituisce una questione rilevante di diritto o di fatto.

Per ricondurre un contenzioso a questa categoria è necessario, dunque, che essa sia sottoposta a un organo giurisdizionale e che il tema climatico, nelle sue dimensioni scientifiche, politiche o normative, non rappresenti un mero sfondo, ma un elemento centrale della controversia1.

L’UNEP suddivide ulteriormente i contenziosi climatici in sei categorie principali:
• violazioni di diritti umani sanciti dal diritto internazionale e dalle costituzioni nazionali;
• mancata applicazione di leggi e politiche legate al clima;
• azioni per mantenere i combustibili fossili nel sottosuolo;
• richieste di maggiore trasparenza sul clima e denunce di greenwashing;
• rivendicazioni sulla responsabilità delle imprese per i danni climatici;
• mancanza di adattamento agli impatti del cambiamento climatico.

Al 30 giugno 2025 nel database del Sabin Center (un centro di studi in materia climatica della Columbia Law School) erano censiti 3.099 casi legati al cambiamento climatico, distribuiti in 55 differenti giurisdizioni e 24 tribunali internazionali.

Oltre la metà dei casi “nazionali” sono stati registrati negli Stati Uniti d’America e, in generale, la concentrazione di tali casi  è maggiore nei Paesi del Nord globale rispetto ai Paesi del Sud globale. I casi presentati innanzi ad organismi internazionali sono stati, invece, 216.

Appare infine utile precisare che il climate litigation si articola essenzialmente in due direzioni: da un lato, le azioni rivolte contro gli Stati, accusati di non aver adottato politiche adeguate alla mitigazione o all’adattamento climatico; dall’altro, quelle intentate contro le imprese, chiamate a rispondere del contributo diretto o indiretto alle emissioni di gas serra.

Nel primo caso, i ricorrenti chiedono ai governi di attuare o rafforzare le misure necessarie a garantire la tutela del clima, facendo leva su obblighi costituzionali o internazionali.

Nel secondo caso, le imprese vengono convenute in giudizio con l’obiettivo di ottenere non solo un risarcimento del danno, ma soprattutto un ordine giudiziale che incida sulle strategie industriali, finanziarie o produttive, affinché queste siano rese compatibili con gli obiettivi climatici globali.

Il consolidamento del principio di responsabilità climatica in ambito europeo

Nel contesto europeo, il contenzioso climatico del primo tipo menzionato sopra, consistente quindi nelle azioni rivolte contro gli Stati, ha assunto una rilevanza crescente grazie ad alcune  sentenze che hanno segnato un mutamento di prospettiva.

In Francia, Germania e nei Paesi Bassi i giudici hanno affermato che l’inazione statale rispetto al cambiamento climatico può tradursi in una violazione del diritto alla vita, alla salute e  all’integrità personale, imponendo in tal modo agli Stati un dovere positivo di protezione. Si tratta di una progressiva ridefinizione della relazione tra diritto pubblico, responsabilità politica e tutela dell’interesse collettivo all’ambiente.

Le pronunce emesse in questi paesi hanno contribuito a consolidare un principio ormai riconosciuto nel diritto europeo contemporaneo: lo Stato può essere ritenuto giuridicamente responsabile per non avere fatto abbastanza per contrastare il cambiamento climatico. Ne deriva che la responsabilità non riguarda più soltanto decisioni attive, ma anche l’inerzia e la mancata prevenzione.

Un passaggio decisivo in questo percorso è rappresentato dal caso Urgenda Foundation contro Paesi Bassi (2019). Con una decisione storica, la Corte Suprema olandese ha riconosciuto che il mancato intervento statale nella riduzione delle emissioni di gas serra viola gli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La Corte ha quindi ordinato al governo di adottare misure più incisive e di conseguire, entro il 2020, una riduzione delle emissioni di almeno il  25% rispetto ai livelli del 1990: un obiettivo già presente nella programmazione climatica nazionale, e da ritenersi pertanto vincolante.

Per la prima volta, obiettivi climatici presentati come impegni politico-programmatici sono quindi divenuti obblighi giuridici immediatamente vincolanti, assumendo un valore effettivo e non soltanto dichiarativo.

Una svolta analoga si è registrata in Francia con il caso Notre Affaire à Tous e altri contro lo Stato francese, noto anche come L’Affaire du Siècle (2021). Il Tribunale Amministrativo di Parigi ha riconosciuto la responsabilità dello Stato per “inazione colpevole”, rilevando che la Francia non aveva rispettato i propri bilanci di CO₂ e non aveva adottato misure adeguate per prevenire danni climatici prevedibili.

La Corte ha ordinato allo Stato di compensare le emissioni eccedenti e di adottare ulteriori provvedimenti entro una scadenza definita, sottolineando che gli obiettivi climatici nazionali costituiscono parametri giuridici effettivi e non semplici orientamenti politici.

Questo quadro si inserisce in un’evoluzione più ampia del diritto internazionale che recentemente, in data 23 luglio 2025, ha portato la Corte Internazionale di Giustizia (“CIG”) a rendere, su richiesta dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un parere consultivo storico sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico.

La CIG ha affermato che gli Stati hanno l’obbligo di proteggere l’ambiente nell’interesse delle generazioni presenti e future, richiamando gli impegni assunti nell’Accordo di Parigi, nei Patti internazionali sui diritti civili, politici, economici e sociali e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

Tra gli obblighi indicati vi sono il dovere di prevenire danni significativi all’ambiente, adottare misure efficaci di riduzione delle emissioni, condividere informazioni scientifiche, cooperare a livello internazionale e agire in proporzione alle proprie capacità.
La CIG ha inoltre ribadito che il diritto a un ambiente sano è una condizione necessaria per il pieno godimento degli altri diritti umani.

Questa evoluzione giurisprudenziale ha aperto la strada a un ampliamento degli strumenti di tutela, rendendo maggiormente percorribile la via giudiziaria anche nei confronti di soggetti privati la cui attività incide significativamente sul clima.

Italia: il caso Greenpeace e ReCommon contro Eni

In Italia, questa tendenza si è concretizzata nella causa intentata nel 2023 contro il colosso energetico Eni (la cosiddetta “Giusta Causa”), dove l’oggetto del giudizio non riguarda l’inadempimento dello Stato, ma la responsabilità climatica di un’impresa, seppur in parte partecipata pubblicamente.

Il caso estende così il perimetro della responsabilità dal settore pubblico a quello  privato, affermando che anche le strategie industriali delle imprese possono essere sottoposte a controllo giudiziario quando incidono sui diritti fondamentali alla vita, alla salute e all’ambiente.
La crisi climatica diventa in questo modo un’occasione per ripensare la funzione stessa dell’impresa e il concetto di interesse sociale.

Questo orientamento è emerso per la prima volta nel contenzioso promosso da Greenpeace, ReCommon e alcuni cittadini contro Eni, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti (questi ultimi non in veste di soggetti pubblici, ma di azionisti di Eni).

I ricorrenti sostengono che la strategia di decarbonizzazione dichiarata da Eni, pur formalmente conforme alle politiche europee, risulta incompatibile con le migliori conoscenze scientifiche disponibili e, soprattutto, con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.

Tale inadeguatezza è stata interpretata dagli attori come una violazione dei diritti fondamentali alla vita,  alla salute e all’ambiente, garantiti dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il petitum non mira solo all’accertamento della responsabilità dell’impresa, ma anche all’emanazione di un ordine volto a imporre la revisione delle strategie aziendali e l’esercizio del potere di indirizzo da parte dello Stato-azionista.

Sezioni unite 21 luglio 2025: confermata la giurisdizione del giudice ordinario

Con la decisione del 21 luglio 2025, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice civile rispetto ai contenziosi climatici promossi nei confronti di imprese private, anche quando queste rivestano un ruolo strategico nazionale e siano partecipate dallo Stato.

La Corte ha chiarito che la questione climatica non attiene alla discrezionalità politica, bensì alla tutela dei diritti fondamentali; ha precisato che l’Accordo di Parigi può contribuire a delineare standard di condotta anche per i soggetti privati; e ha negato che la libertà d’impresa possa essere invocata come limite invalicabile quando interferisca con la dignità, la salute e la vita delle persone.

La pronuncia delle sezioni unite riguarda esclusivamente la giurisdizione, mentre non è ancora stata resa alcuna decisione sul merito della vicenda, il cui esame prosegue dinanzi al Tribunale di Roma.

Pur essendo di natura processuale, la decisione apre comunque la strada a un giudizio di merito potenzialmente dirompente, poiché da ora in avanti la responsabilità climatica delle imprese potrà essere giuridicamente valutata e giudicata.

Questo cambiamento di prospettiva, unitamente all’intensificarsi del climate litigation si riflette inevitabilmente sulla governance societaria e sul ruolo degli amministratori, la cui responsabilità si estende ora alla corretta valutazione e gestione del rischio climatico.

Anche il settore assicurativo è chiamato a riconsiderare le coperture D&O, poiché la probabilità di azioni giudiziarie legate a politiche  ESG e strategie climatiche è destinata ad aumentare.

In questo scenario, la crisi climatica si configura non solo come emergenza ambientale, ma come fattore di trasformazione del diritto dell’economia, della responsabilità civile e della stessa nozione di interesse sociale.

Il climate litigation sembra dunque rappresentare un laboratorio di ridefinizione del rapporto tra libertà economiche e tutela dei diritti fondamentali, e mostra come la giustizia climatica non sia più un tema esclusivamente politico o etico, ma un terreno giuridico concreto, nel quale i tribunali svolgono un ruolo sempre più decisivo nell’orientare il presente e, soprattutto, nell’indirizzare il futuro.


1Under this definition, climate change litigation includes cases before judicial and quasi-judicial bodies that involve material issues of climate change science, policy or law. Thus, cases must satisfy two key criteria for inclusion. First, cases must generally be brought before judicial bodies, though in some exemplary instances, matters brought before administrative or investigatory bodies are also included. Second, climate change law, policy or science must be a material issue of law or fact in the case”, in https:// wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/48518/Global-Climate-Litigation-Report-2025-Status-Review.pdf?sequence=6).


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