LO RIVELA IL REPORT ASSOGESTIONI-CENSIS: SI SENTE L’ESIGENZA DI CONSULENTI E DI ENTI CERTIFICATORI
di Fabrizio Milazzo
I risparmiatori italiani guardano con sempre maggiore attenzione agli investimenti green. Il 57% degli investitori è, infatti, pronto a riallocare liquidità in investimenti sostenibili; per il 57,5% un buon consulente finanziario è imprescindibile, ma per il 90% serve un ente terzo certificatore contro il greenwashing, ossia l’ambientalismo di facciata. Sono gli scenari delineati nel rapporto “Il risparmio degli italiani e gli investimenti green: le nuove prospettive” elaborato da Assogestioni e Censis in base al quale, in prospettiva anno 2050, il 71% degli italiani (contro una media dei paesi Ue del 48%) è convinto che l’energia, i prodotti e i servizi sostenibili saranno disponibili a prezzi convenienti per tutti, incluse le persone meno abbienti. Inoltre, per il 68% del campione (superiore alla media europea del 57%) le politiche per far fronte al cambiamento climatico e a favore della sostenibilità ambientale consentiranno di creare nuovi posti di lavoro in misura maggiore di quanti se ne distruggeranno. E ancora, per il 71% degli intervistati, a fronte del 61% nella media Ue, si potrà creare nuova occupazione di qualità in termini di retribuzioni e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Strumenti finanziari più attrattivi. Il 2022 ha segnato il ritorno dell’inflazione, indotta prima dall’intasamento delle catene globali, in particolare quelle alimentari, poi dal boom dei costi dell’energia. Associato al rialzo dei prezzi è giunto quello dei tassi da parte delle banche centrali. Provati anche dal succedersi di eventi atmosferici avversi, gli italiani guardano positivamente alle tecnologie green e alle opportunità economiche della transizione ecologica. La nuova attenzione alla sostenibilità incide positivamente anche sulle intenzioni dei risparmiatori, stimolati dall’inflazione a riallocare le proprie risorse. E così, oltre il 57% dei risparmiatori italiani considera positivamente l’idea di investire in prodotti finanziari e in imprese sostenibili, maggiormente convinti sono i residenti nel Nord – Ovest (61,7%), i laureati (67,9%) e le persone con redditi alti (76,6%). Si tratta di un’apertura verso gli investimenti green che accompagna la consapevolezza, ormai insita nel 91,7% dei cittadini, che il riscaldamento globale rappresenta un fenomeno concreto, pericoloso, provocato anche dalle attività umane. Come rilevano gli analisti, gli italiani sono stati a lungo convinti che la transizione energetica e, più in generale, quella a una società più sostenibile avrebbe determinato più alti costi, minori consumi e, anche, maggiori disparità sociali. Ma oggi rinviare scelte adeguate nella lotta al riscaldamento globale non è un comportamento neutrale dal punto di vista economico, considerati i danni che imprese e cittadini subiscono a causa di catastrofi ambientali.

Il ruolo della consulenza e di enti terzi garanti. La persistente diffidenza dei risparmiatori italiani verso l’universo del green dipende dal fatto sono ancora tanti coloro che continuano a percepire ambiguità a causa dell’assenza di tassonomie e metriche comuni, facilmente comprensibili e riconoscibili. Infatti, come si legge nello studio, la percezione collettiva è segnata dalla scoperta che molte iniziative green, in alcuni casi anche lanciate da grandi brand e con ampia copertura pubblicitaria, si sono rivelate operazioni di greenwashing senza reali implicazioni. Dalla ricerca emerge, quindi, la richiesta degli italiani di poter contare su una consulenza competente, accessibile, in cui avere fiducia. Oltre il 57% dei risparmiatori italiani ritiene, pertanto, indispensabile l’assistenza di un consulente finanziario nella scelta degli investimenti da indirizzare su imprese, settori, progetti sostenibili. L’89,8% dei risparmiatori italiani vorrebbe anzi poter contare su istituzioni o enti certificatori terzi per garantire che gli investimenti green siano effettivamente conformi agli obiettivi e ai criteri annunciati dai proponenti. Resta, infatti, irrisolta la questione della definizione univoca di che cosa sia da intendere per investimento green.

Digitale e green spingono la produttività delle imprese. Gli investimenti delle imprese nella duplice transizione digitale e green generano, peraltro, una crescita di produttività che può arrivare fino al 14%. Entro il 2024, quasi un’impresa manifatturiera su tre prevede di investire nella digitalizzazione e nella sostenibilità ambientale. Ma le realtà più piccole stentano a tenere il passo, solo una su cinque lo farà in tre anni. Mentre il Mezzogiorno lancia segnali di reattività: il 36% delle imprese investirà nella duplice transizione, superando il 29% delle imprese del Centro-Nord. È quanto emerge dall’analisi di Unioncamere e del Centro Studi Tagliacarne.

Rapporto O-Fire: variabili Esg disallineate rispetto alle regole europee
Nel terzo trimestre del 2022 i fondi sostenibili hanno registrato afflussi netti per 23 miliardi di dollari (circa 22 miliardi di euro) contro i 35 (33 mld di euro) del trimestre precedente e i circa 80 (76 mld di euro) del primo trimestre mentre gli investimenti convenzionali hanno subito deflussi pari a circa 280 miliardi (267 mld di euro) nel secondo trimestre e 200 miliardi (190 mld di euro) nel terzo. Ma se i fondi sostenibili si mostrano più resilienti alla crisi economica, occorre ridurre il disallineamento esistente tra i dati Esg (Environmental, social and corporate governance) forniti dalle imprese e i parametri indicati dalla tassonomia europea, ossia la classificazione introdotta nel 2020 nel contesto del piano d’azione per la finanza sostenibile dell’Unione europea, per individuare le attività economiche eco-sostenibili e accelerarne la transizione ecologica al fine del raggiungimento degli obiettivi clima-energia. È quanto emerge dalla lettura della prima edizione del report di O-Fire, l’Osservatorio sulla finanza sostenibile promosso da Università di Milano – Bicocca, Banca Generali e Aifi che solleva il tema dell’asimmetria informativa sulla tassonomia che compromette il grado di compliance delle imprese. I ricercatori, in particolare, hanno estratto un campione di aziende europee di grandi dimensioni per le quali sono disponibili oltre 800 variabili Esg, di cui 370 relative all’ambiente, per esempio le emissioni, l’impronta di carbonio, le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica, i consumi di acqua, la biodiversità e l’uso del suolo, e hanno riscontrato un disallineamento tra queste variabili e quelle contenute nei criteri di vaglio tecnico della tassonomia, quindi i criteri che identificano le attività sostenibili in grado di dare un contributo sostanziale alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici. Come si legge nello studio, non si tratta degli stessi parametri oppure si tratta degli stessi ma il grado di dettaglio non è paragonabile a quello richiesto dalla tassonomia. Se le variabili disponibili nel database consentono di stabilire, per esempio, quante aziende europee hanno implementato negli ultimi due anni un programma definito di efficienza energetica o hanno fissato dei target di abbattimento delle emissioni, non rendono tuttavia possibile quantificare la percentuale di imprese che possano a oggi ritenersi compliant con la tassonomia. Considerando che i dati divulgati dalle aziende non sono sovrapponibili a quelli contemplati nella tassonomia e richiesti dalla nuova direttiva Csrd (Corporate sustainability reporting directive), a giudizio dei ricercatori nessuno a oggi può considerarsi allineato con la tassonomia, né con i conseguenti obblighi di rendicontazione non finanziaria. Esiste, quindi, un gap da colmare che richiede uno sforzo considerevole da parte dei destinatari della tassonomia, sia di tipo comunicativo, sul fronte delle attività di rendicontazione e reporting non finanziario d’impresa, sia di tipo economico-finanziario, legato agli investimenti necessari affinché le attività economiche possano considerarsi sostenibili secondo i criteri della normativa europea.
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