La pensione torna a crescere, però meno del dovuto per i futuri pensionandi. Chi si metterà in pensione a partire dal prossimo anno, infatti, beneficerà di una rivalutazione del «montante contributivo» in misura inferiore a quella calcolata dall’Istat, perché ridotta della rivalutazione negativa che doveva esserci per il corrente anno (cioè una “svalutazione”) e che, invece, è stata azzerata. È andata meglio a chi è andato in pensione quest’anno: anch’egli ha beneficiato dello stesso azzeramento della rivalutazione negativa, ma non dovrà più restituire il beneficio.

Poca cosa, ma il diverso trattamento c’è: 2 euro, ad esempio, per il lavoratore che andrà in pensione nell’anno 2023 a 67 anni avendo 250mila euro di contributi al 31 dicembre 2021. Infatti, avrà diritto a una pensione di 14.448 euro annui, anziché 14.450 euro.

La disparità di trattamento (una sorta di “tassa” che colpisce solo i futuri pensionandi) deriva dal taglio fatto dal ministero del lavoro all’indice Istat di rivalutazione dei montanti contributivi 2022: pari a 1,009973% in misura piena è stato ridotto a 1,009758 al fine di recuperare il tasso negativo dell’anno scorso (-0,000215).

La pensione contributiva. La vicenda riguarda il calcolo «contributivo» delle pensioni. Pertanto, interessa soprattutto i “giovani”, per tali intendendo coloro che hanno cominciato a lavorare dopo l’anno 1995 e che avranno la pensione calcolata per intero con il criterio contributivo. Ma gli altri lavoratori non ne sono esenti; nel loro caso, tuttavia la regola contributiva si applica solo ai contributi versati dall’anno 2012.

La riforma delle pensioni Fornero di tale anno, infatti, ha esteso il sistema contributivo a tutti. Ha stabilito, di principio, che con questa regola vanno calcolate le quote di pensione relative ai contributi versati dal 1° gennaio 2012. Per alcuni ciò non ha segnato una novità, perché già appartenenti a tale sistema e cioè:

– quanti hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996 ai quali già si applicava/applica solo la regola contributiva di calcolo della pensione;

– quanti, pur avendo iniziato a lavorare prima del 1° gennaio 1996, al 31 dicembre 1995 avevano maturato meno di 18 anni di contributi per cui erano/sono destinatari della c.d. regola “mista” di calcolo della pensione, ossia “retributiva” per l’anzianità maturata sino al 31 dicembre 1995 e “contributiva” per i periodi successivi.

Per altri, invece, è stata una rivoluzione perché s’è trattato di un cambio di criterio a 360 gradi. Si tratta di quanti potevano contare su almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e che per questo motivo continuavano a essere destinatari della sola regola “retributiva” di calcolo della pensione: dal 1° gennaio 2012 anche a loro, con riferimento ai contributi versati dalla stessa data (cioè dal 1° gennaio 2012), la pensione è calcolata con la regola contributiva. Riassumendo, allora, dal 1° gennaio 2012 la situazione per le tre categorie di soggetti è questa:

– nessuna novità per quanti hanno cominciato dal 1° gennaio 1996: a loro già si applicava e continua ad applicarsi la sola regola contributiva di calcolo della pensione;

– nessuna novità neppure per quanti hanno cominciato a lavorare prima del 1° gennaio 1996 e al 31 dicembre 1995 aveva meno di 18 anni di contributi: erano e continuano ad essere destinatari della regola “mista” di calcolo della pensione, ossia “retributiva” per l’anzianità maturata sino al 31 dicembre 1995 e “contributiva” per i periodi di attività successivi al 1° gennaio 1996;

– la novità colpisce, invece, quanti potevano contare su almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e che, per questo motivo, continuavano a essere destinatari della sola regola “retributiva” di calcolo della pensione. Loro, infatti, sono divenuti destinatari del regime “misto” con applicazione del criterio retributivo per le anzianità maturate fino al 31 dicembre 2011 e del criterio contributivo per le anzianità maturate dal 1° gennaio 2012.

La rivalutazione dei montanti. Il calcolo della pensione con la regola «contributiva» avviene applicando una “percentuale” a tutti i contributi versati nella vita, che formano il cd “montante contributivo”. Tale percentuale è prefissata dalla legge, da 57 a 71 anni: sono i c.d. “coefficienti di trasformazione”, anch’essi oggetto di revisione, dal prossimo anno, con miglioramento a favore di chi si metterà a riposo nel biennio 2023/2024 (si veda altro articolo in altra pagina).

Il “montante contributivo”, ogni anno, viene rivalutato per fargli conservare il potere di acquisto; al momento della pensione, infatti, i contributi possono risalire anche a 30-40 anni prima. Il tasso di rivalutazione è pari alla variazione del Pil (prodotto interno lordo) misurata nei cinque anni precedenti quello della rivalutazione. Il tasso è calcolato dall’Istat e ufficializzato dal ministero del lavoro. Quello dell’anno in corso, applicabile ai montanti al 31 dicembre 2021 è pari a 1,009973. Ad esempio, 250mila euro diventano 252.493 euro (su cui si calcola l’importo della pensione).

Cosa succede se il tasso è negativo? Il 27 ottobre 2014, nel comunicare il tasso di rivalutazione per i lavoratori che si sarebbero pensionati nell’anno 2015, l’Istat fece presente che, per la prima volta dall’anno 1996, il tasso risultava inferiore a 1: 0,998073%. Cosa singolare, perché avrebbe comportato non una rivalutazione, bensì una “svalutazione” del montante contributivo. Ad esempio, un montante di 300 mila euro sarebbe diventato di 299.422 euro.

L’Inps, in via amministrativa, congelò la svalutazione sostenendo che la legge 335/1995 non prevede l’applicazione del tasso in senso negativo (cioè per fare svalutazioni). La tesi dell’Inps è poi divenuta norma del decreto legge n. 65/2015 che ha inserito questo periodo nella legge n. 335/1995: «in ogni caso il coefficiente di rivalutazione (…) non può essere inferiore a 1, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive».

La rivalutazione 2022. A sette anni di distanza la storia si è ripetuta. L’Istat, infatti, in una nota del 7 ottobre 2021, ha comunicato il tasso di rivalutazione dei montanti contributivi al 31 dicembre 2020 per chi va in pensione nell’anno 2022: 0,999785. Cioè di nuovo inferiore a 1 e che, per effetto del decreto legge 65/2015, non va utilizzato.

A differenza di sette anni fa, però, il tasso di rivalutazione da utilizzare per rivalutare i montanti contributivi al 31 dicembre 2021 per chi va in pensione nel 2023 deve essere corretto per decurtare il tasso negativo non applicato per l’anno 2020 (-0,000215). Nell’anno 2014, invece, i pensionati furono graziati dal recupero, perché la norma stabilisce che «in sede di prima applicazione non si fa luogo al recupero sulle rivalutazioni successive».

La “tassa” del Pil sulle pensioni. Agli effetti pratici, dunque, è successo qualcosa di anomalo: chi è andato in pensione durante quest’anno «risparmia» la decurtazione del tasso negativo, a differenza di chi ci andrà negli anni avvenire, dal 2023 in poi.

In altre parole, chi è andato in pensione nel corso di quest’anno ha beneficiato di una rivalutazione maggiorata (0,0215%) che non deve restituire mai più. Gli altri pensionandi, invece, pagheranno questa sorta di “tassa” del Pil (del Pil perché il calcolo del coefficiente dipende dal Pil). La pagherà chi si metterà in pensione dall’anno prossimo, con il taglio della rivalutazione del «montante contributivo» su cui si calcola la pensione
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