Paola Valentini
Il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, alleandosi con Azimut, ha ufficialmente dichiarato guerra ad Amundi. Una battaglia che si gioca nel risparmio gestito, un mercato che, nonostante la battuta d’arresto della raccolta quest’anno dovuta alla crisi delle borse, ha enormi prospettive intatte di rilancio di fronte a sè vista l’enorme massa di liquidità (oltre 1.818 miliardi di euro in Italia a fine novembre secondo gli ultimi dati Abi, 4 miliardi in più da novembre 2021) che giace sui conti correnti ed è a rischio di deprezzamento con l’inflazione alle stelle. L’accordo, annunciato venerdì 16 dicembre, tra Unicredit e Azimut cambierà gli equilibri nell’industria italiana dell’asset management e va visto proprio alla luce delle potenzialità di intercettare questa massa di risparmio parcheggiata. La partnership prevede la creazione di una fabbrica prodotti in Irlanda da parte della società di gestione presieduta da Pietro Giuliani che svilupperà prodotti di investimento da distribuire in Italia attraverso la rete Unicredit, su base non esclusiva. Una sorta di joint venture per creare un polo italiano dei fondi perché la banca di piazza Gae Aulenti avrà il diritto di esercitare dal 2028 una call per l’acquisizione della newco irlandese. Magari quando a fine 2026 scadrà l’accordo di distribuzione che Unicredit ha attualmente con Amundi, accordo che è stato siglato dopo che la banca sei anni fa, sotto la guida dell’allora ceo, il francese Jean Pierre Mustier, vendette al colosso d’Oltralpe la sua sgr, Pioneer, grazia alla quale oggi Amundi è terza per masse in Italia con 208 miliardi.

Ed è il motivo per cui oggi Unicredit non compare più nella mappa di Assogestioni delle società di gestione (ma non c’è nemmeno Azimut perché il gruppo che ha masse per 87 miliardi qualche mese fa è uscita dall’associazione) dove figura invece al primo posto l’altra grande banca italiana, Intesa Sanpaolo, con asset per 478 miliardi, suddivisi tra Eurizon (375 miliardi) e Fideuram (103 miliardi). L’istituto guidato dal ceo Carlo Messina ha infatti già da tempo adottato una strategia ben precisa nel risparmio gestito: quella dell’internalizzazione. Gestisce tutto in casa a differenza di Unicredit che ha venduto Pioneer e che ora con l’accordo con Azimut ha lanciato un modello nuovo in Italia accanto, da una parte, a quello di Intesa Sanpaolo, e dall’altra a banche come Mps e Banco che non hanno la sgr di proprietà ma accordi di distribuzione con Anima, società di gestione guidata dall’ad Alessandro Melzi d’Eril, che però colloca i suoi fondi anche tramite molte altre banche sul territorio italiano (ha un centinaio di partnership di collocamento). Anche se non figura nella mappa di Assogestioni, Unicredit ha masse totali per 194 miliardi, di cui Equita Sim stima circa il 75% in Italia: «il network di Unicredit raggiunge 7 milioni di clienti in Italia», ha sottolineato la sim in seguito all’operazione con Azimut. Dal canto suo Akros ha alzato il prezzo obiettivo su Azimut da 22,5 a 26 euro dopo questo accordo (giudizio buy confermato) giudicato, dalla stessa Akros e anche da Kepler «un elemento di svolta» per Azimut considerando, prosegue Akros, «il numero di clienti di Unicredit e la capillarità della sua rete» che, osservano gli analisti di Intesa Sanpaolo e di BofA, si affianca alla base distributiva di Azimut finora costituita dalla sua struttura di consulenti finanziari.

«Questo modello di partnership diventerà un punto di riferimento per il settore perché nel risparmio gestito le dimensioni saranno sempre più importanti. Le società di taglia medio-piccola potrebbero avere difficoltà a competere in un mercato nel quale l’approccio geografico degli investimenti non sarà più vincente ma occorrerà sempre più avere una specializzazione in megatrend come l’Esg, o in settori alternativi o di nicchia, ad esempio private equity o metaverso. A meno di essere un operatore davvero globale, non è possibile avere una reale diversificazione dell’offerta facendo tutto in casa», spiega Mauro Panebianco, partner e responsabile dell’asset & wealth management advisory di PwC. Quali impatti invece per i risparmiatori di un modello di partnership come quello tra Unicredit e Azimut? «Comporta una serie di elementi che vanno nella direzione di migliorare e innovare l’offerta dei prodotti, ma c’è anche un tema legato alla formazione più efficace del personale. Inoltre un accordo di questo tipo mette a fattor comune gli investimenti e quindi a tendere ci potrebbe essere una riduzione delle commissioni per i clienti finali», aggiunge Panebianco.

Più in generale c’è da dire che la nascita di una nuova iniziativa che coinvolge due importanti operatori è un segnale di rafforzamento per industria italiana dell’asset management che negli ultimi anni ha perso competitività, aprendo la porta a player internazionali.

«Un modello ibrido di collaborazione tra asset manager e distributore, a metà tra il modello di distribuzione fondi a scaffale e quello completamente integrato, presenta caratteristiche molto interessanti. L’accordo si inserisce in un mercato che negli ultimi anni ha visto aumentare il livello di concentrazione in termini di flussi di raccolta su singoli asset manager o su singoli fondi», aggiunge Claudio Bocci, partner e responsabile della business line asset management di Prometeia. Come rilevato sulla piattaforma Asset Management Insights di Prometeia, nel 2016 in Italia le prime 15 società di gestione detenevano il 70% del mercato, oggi l’84%. «Il settore dell’asset management è molto competitivo con un’offerta che si articola con un’ampia varietà di fondi, ma alla fine le scelte dei distributori si stanno orientando verso numero via via più ridotto di player con i quali impostare partnership di lungo termine. Questo anche per la pressione dei regolatori, che spingono affinché i distributori forniscano al cliente più informazioni per prendere decisioni consapevoli, comportando scambi informativi più onerosi tra distributore e gestore», spiega Bocci.

L’accordo può essere visto anche come figlio di un 2022 in cui c’è stata una battuta di arresto importante della raccolta del gestito dovuta al cambiamento del contesto macro e quindi a cascata si sono registrate performance negative non solo nei fondi azionari ma anche nell’obbligazionario con perdite anche del -15%. «Una discontinuità del mercato che può stimolare idee nuove di fare business considerando che la liquidità sui conti correnti delle famiglie italiane resta ai massimi storici. Nel contempo, con l’aumento dei tassi, si sta riaffacciando sul mercato tutta una serie di strumenti che negli ultimi anni avevano perso competitività, dai Btp ai conti di deposito, che sono tornati a offrire remunerazioni interessanti, e ciò pone ulteriore pressione sugli asset manager», conclude Bocci. (riproduzione riservata)

Scacco ad Amundi
Esattamente sei anni fa l’ex ceo di Unicredit Jean Pierre Mustier vendeva Pioneer al colosso del wealth management francese Amundi per 3,54 miliardi. La scelta, annunciata a sorpresa all’indomani della débacle referendaria di Matteo Renzi, rientrava nel piano di cessioni che il banchiere aveva deciso di mettere in atto tra non poche polemiche. Se infatti, sostenevano molti osservatori, la dismissione della fabbrica di risparmio gestito avrebbe rafforzato il capitale della banca, nel medio-lungo termine l’avrebbe privata di una preziosa fonte di ricavi. La giustificazione data da Mustier era la dimensione problematica della controllata: «è troppo grande per i clienti individuali ed è troppo piccola per gli istituzionali». D’altra parte, attraverso l’acquisto di Pioneer e l’alleanza con Unicredit, Amundi (controllata dal Credit Agricole e guidata oggi dal ceo Valerie Baudson) ha potuto rafforzare la presa sul mercato e sul debito pubblico italiano affermandosi come uno dei principali operatori sulla piazza con asset per circa 200 miliardi. Nelle scorse settimane però, con una mossa altrettanto inattesa di quella del suo predecessore, il nuovo ceo di Unicredit Andrea Orcel ha cambiato le carte in tavola. Se i risultati saranno all’altezza delle ambizioni, la partnership commerciale con Azimut annunciata venerdì 15 dicembre potrebbe infatti ridisegnare le geografie del risparmio gestito in Italia.

Sin dal suo arrivo in piazza Gae Aulenti Orcel non ha fatto mistero di voler rivisitare il network di alleanze del gruppo. In nome delle parole d’ordine semplificazione e redditività anche la partnership con Amundi (in scadenza nel 2027) è finita nel mirino e nell’ultimo anno e mezzo le indiscrezioni su una possibile rinegoziazione degli accordi sono state intense. Inizialmente si ipotizzava che la partnership sarebbe stata rivisitata a seguito di un’operazione di m&a con un’altra banca italiana o internazionale. Sinora però il deal non c’è stato e Orcel ha preferito seguire un’altra strada: questa operazione con Azimut «dimostra il nostro impegno a rafforzare l’industria del risparmio gestito in Italia», ha spiegato il banchiere. Sebbene un divorzio tra Unicredit e Amundi non sia ancora scontato, di certo l’alleanza sarà rivisitata, forse anche prima della scadenza del 2027. Una mossa che rischia di depotenziare il business italiano del colosso francese.

Quali saranno le contromosse di Parigi? Amundi e, soprattutto, la sua controllante Agricole sono da tempo attori molto attivi in Italia. Se le prime iniziative risalgono al 1989, quando Giovanni Bazoli chiamò la banque verte per rompere l’assedio di Enrico Cuccia al Nuovo Banco Ambrosiano, la presenza diretta è iniziata nel 2006 quando Cariparma e Friuladria furono cedute da Intesa all’Agricole in seguito alla fusione con il Sanpaolo di Torino. Oggi il gruppo è molto attento alle opportunità come sono lì a dimostrare il salvataggio delle tre casse di Cesena, Rimini e San Miniato, l’opa sul Credito Valtellinese e il recente interessamento alla partita Carige.

Ma è stato soprattutto l’ingresso nel capitale di Banco Bpm con l’acquisto del 9,9% ad accendere le speculazioni del mercato. Che non si trattasse di un investimento puramente finanziario è stato chiaro sin da subito. Poche settimane dopo il blitz, Agricole ha presentato un’offerta per le attività assicurative del Banco che venerdì 23 dicembre è riuscito ad aggiudicarsi. Sembra comunque improbabile che la banque verte passi subito all’offensiva, dando la scalata al Banco. Non solo finora il gruppo non avrebbe chiesto a Bce l’autorizzazione a superare il 10% ma il quadro politico oggi non è favorevole a un blitz straniero sulla terza banca italiana. Per il momento la strategia più efficace sembra stringere ulteriormente i legami commerciali con il Banco. A inizio 2023 per esempio dovrebbe essere confermata l’alleanza sul credito al consumo, visto che il vertice di piazza Meda non è intenzionato a esercitare l’opzione di vendita sul 10% di Agos Ducato. Per quanto riguarda il risparmio gestito, le speculazioni sono già iniziate.

Lo storico partner del Banco in questo settore è Anima di cui l’istituto guidato da Giuseppe Castagna è anche primo azionista al 20%. La sgr milanese è da tempo nel radar di Parigi. Nella primavera scorsa Amundi ne è diventata terzo azionista con una quota del 5,2% e, a cavallo dell’estate, i rumors su una possibile opa totalitaria si sono intensificati nelle sale operative. L’operazione (ufficialmente smentita) consentirebbe ai francesi non solo di guadagnare terreno nel risparmio gestito italiano, ma anche di chiudere il cerchio attorno al Banco che vedrebbe a quel punto nell’Agricole il partner industriale unico. Non solo. Tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, forte di questi legami, il tandem Banco-Agricole potrebbe muovere verso l’altro alleato storico di Anima, il Montepaschi. C’è infatti da scommettere che, concluso l’aumento di capitale e avviato il turnaround, le autorità europee torneranno presto a chiedere la privatizzazione della banca senese. A quel punto la volontà di risolvere in maniera definitiva il problema Mps potrebbe convincere il governo di Giorgia Meloni a superare le resistenze sovraniste e intavolare una discussione con Castagna e con il responsabile dell’Agricole in Italia Giampiero Maioli. In questi ultimi anni i due banchieri hanno saputo costruire buoni rapporti con i vertici del Tesoro e con molte istituzioni romane e le alleanze costruite potrebbero tornare molto utili in quella partita. Questo scenario, descritto oggi da qualche investment banker, è suggestivo ma non esente da incertezze. In primo luogo, con oltre il 5% dei btp italiani in bilancio, Anima rimane un target in grado di respingere ogni raid ostile grazie allo scudo del golden power. In secondo luogo la progressiva confluenza di Banco in Agricole, sebbene brillantemente avviata, non può scontata. Il dossier piazza Meda è ancora sulla scrivania di Orcel che, malgrado il blitz fallito dell’inverno scorso, non lo ha ancora rimesso nel cassetto. Dopo l’alleanza con Azimut, sarà ancora una volta il banchiere romano a guastare i progetti di Parigi? Si vedrà, ma di certo il 2023 si preannuncia come un anno ricco di sorprese per il sistema finanziario italiano. (riproduzione riservata)

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