LE NOVITÀ (POSITIVE) A PARTIRE DA GENNAIO 2023 PER CHI È IN PROCINTO DI METTERSI A RIPOSO
di Daniele Cirioli
Tre buone notizie per chi è vicino alla pensione. L’anno prossimo non ci sarà alcun aumento di età o contributi per mettersi a riposo (prima buona notizia) e si avrà diritto a una pensione di importo più alto rispetto a quanto ricevuto da chi è andato o andrà in pensione entro la fine di quest’anno (seconda buona notizia). Tutto ciò, non per iniziative governative o per la crescita economica: purtroppo è una conseguenza del Covid. La pandemia, infatti, ha modificato la vita media dell’italiano a 65 anni: si è ridotta e, quindi, si può prendere di più in pensione (perché, in teoria almeno, si campa di meno). Anche la terza buona notizia riguarda un miglioramento dell’importo della pensione. Consiste, infatti, in una rivalutazione dei contributi versati nella vita lavorativa che si trasformano in pensione (rivalutazione che non c’è stata, invece, per chi è andato in pensione quest’anno). Ma qui c’è la manina del Legislatore: la rivalutazione non sarà piena, ma ridotta al fine di recuperare il “segno meno” degli anni passati (si veda altro articolo in altra pagina).

La pensione non si allontana. Smentendo le proiezioni del passato, dunque, dal prossimo 1° gennaio non ci saranno aumenti all’età di pensionamento, né al requisito contributivo di pensionamento. La «speranza di vita» è risultata negativa, a causa del Covid (e questa non è una buona notizia) e, quindi, non modifica il requisito anagrafico per il diritto a una pensione.

È la seconda volta che succede. Dopo cinque anni di continuo allontanamento dell’età di pensione, per il totale di 11 mesi (2 mesi dal 2013, 4 mesi dal 2016 e altri 2 mesi dal 2019), la tregua porta a sei gli anni, 2019-2024, durante i quali è stabile a 67 anni l’età per la pensione di vecchiaia. La novità va a favore soprattutto di quanti spegneranno le 67 candeline nel biennio 2023/2024: non dovranno lavorare «qualche mese in più», come immaginato di dover fare con le simulazioni del passato, che valutavano, invece, una continua crescita della speranza di vita. Al pensionamento di vecchiaia, dunque, si potrà accedere a 67 anni fino al 31 dicembre 2024 insieme ad almeno 20 anni di contributi. L’età è di 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti che hanno svolto una o più delle attività considerate gravose o se sono stati addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 30 anni. I lavoratori con primo accredito di contributi dal 1° gennaio 1996 possono ottenere la pensione di vecchiaia con un’anzianità minima effettiva di soli 5 anni, ma a 71 anni d’età. Per la pensione anticipata, invece, basta solo il requisito contributivo: fino al 31 dicembre 2026 è fissato a 42 anni e 10 mesi agli uomini e 41 anni e 10 mesi alle donne, per via della disapplicazione, in questi anni, degli adeguamenti appunto alla speranza di vita. Vale la pena ricordare che, in tal caso, però, la pensione decorre dopo tre mesi dalla maturazione dei requisiti (c’è «finestra»). I lavoratori con primo accredito di contributi dal 1° gennaio 1996 possono avere la pensione anticipata con anzianità minima effettiva di 20 anni, al raggiungimento di 64 anni d’età se soddisfano il c.d. «importo soglia mensile», ossia se l’importo della pensione cui hanno diritto risulta non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale (circa 1.315 euro mensili lordi). Infine è di 41 anni il requisito contributivo per la pensione anticipata dei lavoratori «precoci». Si tratta di dipendenti o autonomi con un anno almeno di contribuzione per periodi di lavoro effettivo svolti prima del compimento del 19° anno di età. Anche in tal caso, la pensione decorre dopo tre mesi dai requisiti («finestra»).

La pensione si fa più pesante. Smentendo anche qui le proiezioni del passato, chi andrà in pensione dal prossimo 1° gennaio avrà diritto a una pensione più alta rispetto a chi ci è andato o ci andrà entro la fine dell’anno.

Ad esempio, al lavoratore che è andato in pensione quest’anno a 67 anni d’età, avendo 400 mila euro di contributi versati, gli è stata riconosciuta una pensione lorda pari a 22.300 euro annui, ossia circa 1.715 euro mensili (per 13 mensilità). Al lavoratore che andrà in pensione nel biennio 2023/2024, sempre a 67 anni e sempre con 400 mila euro di contributi versati, gli verrà riconosciuta una pensione lorda di 22.892 euro annui, circa 1.761 euro mensili (per 13 mensilità), quindi circa 50 euro lordi in più al mese. La novità arriva dal decreto 1 dicembre 2022 con cui il ministero del lavoro, in base alle informazioni Istat, ha fissato i «coefficienti di trasformazione del montante contributivo» applicabili ai pensionamenti degli anni 2023 e 2024. Questo è il sesto appuntamento da quando la revisione dei coefficienti è stata introdotta (era il 2009) ed è la prima volta che risulta positiva (le prime cinque sono state tutte negative).

I coefficienti operano nel sistema contributivo: il lavoratore accantona ogni anno i contributi che nel totale (montante contributivo), al pensionamento, sono convertiti in pensione proprio da questi coefficienti, differenti per età (di pensionamento). I coefficienti vengono aggiornati periodicamente. L’ultima revisione c’è stata nel 2021 per il periodo 2021/2022 che è tuttora vigente. Gli altri adeguamenti ci sono stati per i trienni 2013/2015, 2010/2012, 2016/2018 e biennio 2019/2020. Tutte le revisioni sono state negative, producendo nel tempo il continuo impoverimento delle pensioni.

Come si vede in tabella, l’impoverimento maggiore ha colpito in corrispondenza dell’età di pensionamento ordinaria, cioè 65 anni: chi è andato in pensione nel 2009 ha ricevuto una pensione superiore del 15% rispetto a chi è andato a riposo quest’anno. Per il prossimo biennio c’è l’inversione: tutti i coefficienti crescono, come indicato in tabella. In passato, quando la vita media si allungava, i coefficienti di conseguenza venivano aggiornati al ribasso, in maniera tale da garantire un bilanciamento tra montante contributivo accumulato e vita residua ipotizzata. Funziona così, infatti, il sistema previdenziale: nulla è dato di più a chi ha lavorato. La pensione è semplice trasformazione in rendita dei contributi versati. Pertanto, a parità di montante contributivo, quando la statistica prevede che si resti in vita più a lungo, il calcolo dei coefficienti è fatto in maniera tale che si abbia diritto a un assegno mensile più basso, affinché risulti sufficiente a pagare la pensione al lavoratore finché non passa a miglior vita. Il ministero del lavoro spiega che i nuovi coefficienti sono risultati più generosi a causa dell’incremento della mortalità derivata dalla pandemia Covid, che ha portato a una riduzione della speranza di vita calcolata dall’Istat.

Diritto e misura frutto di calcoli statistici. È paradossale che le buone notizie sulle pensioni siano la conseguenza del verificarsi di fatti tragici, come è stata la pandemia del Covid. C’entra poco la crisi economica che ne è derivata: a dare le buone notizie sulle future pensioni è il cambiamento di rotta della curva statistica della speranza di vita. Più che sul lavoro e sulla solidarietà della categoria dei lavoratori, infatti, la pensione è soprattutto frutto di calcoli statistici al fine di mantenere in equilibrio, in pareggio i conti dell’Inps, a nulla rilevando invece il bilancio dei lavoratori.

Un sistema del genere, però, è naturalmente rischioso: mette alcuni contro altri: i giovani contro gli anziani.

Fino a qualche anno fa non c’erano questi calcoli stratosferici e incomprensibili per fissare il diritto (quando si può andare in pensione) e la misura della pensione (l’importo); infatti, era semplicemente una quota della retribuzione. Oggi, invece, “diritto” e “misura” della pensione sono determinati, tra l’altro, dai seguenti principali indici finanziario-attuariali:

«speranza di vita» = indice cui è affidato il compito di adeguare l’età di pensionamento;

«coefficienti di trasformazione» = aggiornati periodicamente in base a vari fattori statistici, è l’indice che trasforma (appunto) i contributi in pensione;

«rivalutazione del montante contributivo» = operazione fatta per anno di accesso alla pensione, serve a garantire la conservazione del “potere di acquisto” dei contributi versati.

A monte di ciò va considerato il “regime” di calcolo della pensione (cioè il “criterio” di calcolo della pensione). Dopo la riforma Fornero del 2012 i lavoratori sono tutti uguali circa questo criterio, perché è stato esteso a tutti il “sistema contributivo” stabilendo, di principio, che con questa regola vanno calcolate le quote di pensione relative ai contributi versati dal 1° gennaio 2012.
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