GESTIONI/4IN ITALIA I COSTI DEI PRODOTTI A GESTIONE ATTIVA SONO TRA I PIÙ ALTI AL MONDO. ANCHE PER IL PESO DEL SETTORE BANCARIO NELLA DISTRIBUZIONE. E LA CONCORRENZA DEGLI ETF DIVENTA SEMPRE PIÙ FORTE
Marco Capponi
La Consob lo ha detto senza mezzi termini: dal 2023 anche i fondi comuni dovranno pubblicare il Kid (Key Information Document, con una sola “i”), uniformandosi a tutti gli altri prodotti di investimento. In buona sostanza, in massimo tre-quattro pagine dovranno essere riportate tutte le caratteristiche dei fondi, comprensive di descrizione, orizzonte di investimento, rapporto rischio-rendimento e, non da ultimo, i costi. Insomma, i risparmiatori riceveranno con maggiore trasparenza un’informativa su quanto stanno pagando per il loro fondo, e potrebbero rendersi conto, se magari hanno un amico, un parente o un collega in un altro Paese del mondo (Taiwan escluso) che la tariffe a loro carico sono molto più elevate.
Italia maglia nera dei costi. L’ultima edizione del Global Investor Experience Study di Morningstar su commissioni e spese dei prodotti d’investimento delinea uno scenario chiaro (tabella sopra): su un campione di 26 Paesi analizzati l’Italia è all’ultimo posto per spese medie ponderate dei fondi azionari e al penultimo, appena sopra Taiwan, per quelli obbligazionari. I due Paesi peraltro sono gli unici due della graduatoria a ricevere la valutazione più bassa in assoluto, “bottom”. Per l’Italia si tratta della seconda edizione consecutiva con questo giudizio (il rapporto viene compilato con cadenza biennale). Scendendo nel dettaglio della sua valutazione, Morningstar dice che l’Italia è così in basso perché «nel Paese gli investitori individuali sono abitualmente soggetti a commissioni iniziali o di retrocessione». Inoltre «le classi di azioni senza commissioni di retrocessione sono registrate nel Paese, ma non facilmente accessibili ai clienti finali perché la distribuzione dei fondi è dominata dalle banche». Questo è un punto cruciale, secondo gli analisti di Morningstar, perché «nei mercati in cui il canale bancario domina la distribuzione dei fondi non esistono segnali del fatto che le forze di mercato da sole possano riuscire ad abbassare le spese medie per gli investitori retail».
Infine, aggiunge la società di analisi, «i fondi in Italia possono addebitare commissioni di gestione con una componente asimmetrica senza un’uguale riduzione della fee per sottoperformance».
Più costo, più qualità. Ovviamente, un costo elevato non è necessariamente negativo, e per alcune case di gestione addebitare ai clienti prezzi più alti significa provare a costruire prodotti di qualità maggiore. All’ultima rilevazione sui costi dei fondi effettuata da MF-Milano Finanza su dati Fida del 2021, e non ancora replicabile oggi perché alcune voci come le commissioni di performance saranno disponibili soltanto a 2022 concluso, risultava ad esempio una presenza importante dei comparti di Azimut nei ranking dei prodotti più cari. Attenzione però a non stigmatizzare a prescindere un costo elevato: il management del gruppo ha ribadito in più occasioni di mettere al primo posto sempre il rendimento, e cioè la qualità del prodotto offerto, accettando al contempo una spesa più elevata. Volendo fare un’analogia con altri comparti industriali, si tratterebbe pertanto di prodotti a marchio premium, in cui la qualità viene prima del prezzo.
Al ribasso con gli Etf. Non tutti però sono disposti (o sono in grado) di lavorare con soli prodotti a marchio premium. E per molte case di gestione che sviluppano strategie attive, con costi così elevati, la concorrenza degli Etf non può più essere ignorata. Secondo quanto rivelato da uno studio di PwC Global Awm le masse globali del risparmio gestito potrebbero segnare al 2026 una crescita media annua composta del 4,3%, dai 127,5 mila miliardi di dollari di fine 2021 a 157,2 mila miliardi, grazie soprattutto al sostegno dei prodotti passivi, che si caratterizzano per costi inferiori rispetto agli strumenti gestiti attivamente. Sempre al 2026 si prevedono masse di 72,6 mila miliardi nei fondi comuni, in aumento del 4,6% in totale, con i fondi passivi a +7,7% e gli attivi a +3,2%.
C’è già chi si sta muovendo in questa direzione. Fineco, per esempio, lo scorso aprile ha lanciato una soluzione di portafoglio, Fineco Am Passive Underlyings, basata su una serie di strumenti passivi selezionati in modo tale da massimizzare la diversificazione. «Riteniamo che questa sia la strada più corretta per cogliere l’opportunità di crescita che l’intera industria del risparmio ha davanti in questo momento: favorire lo sviluppo attraverso l’ampliamento del mercato piuttosto che imporre costi supplementari», ha detto in quell’occasione l’ad e dg della banca, Alessandro Foti. (riproduzione riservata)
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