Quella di Unicredit è una storia complessa. Dopo quattro aumenti di capitale che in dieci anni hanno bruciato 27,5 miliardi (molto più dell’attuale capitalizzazione, che si attesta a 24,7 miliardi), dal 2017 il titolo della banca milanese non si è più risollevato. Anzi, complice lo choc pandemico, ha lasciato sul terreno quasi due terzi del proprio valore portandosi nell’autunno scorso ai minimi storici di 6,4 euro. Se a ciò si aggiunge la dieta forzata sui dividendi imposta dalla Bce, è comprensibile che molti azionisti abbiano manifestato seri malumori sull’evoluzione dell’investimento. In un report pubblicato nei giorni scorsi gli analisti di Mediobanca si sono divertiti a immaginare il libro dei sogni di un socio della banca. «Caro Babbo Natale», esordiva la ricerca, «due anni fa ti ho chiesto di farmi una sorpresa, di lasciare cioè un segno tangibile che ricompensasse la mia fedeltà. Hai risposto generosamente, ma la pandemia ha rovinato tutto, impedendo la consegna. Due anni di lavoro da casa devono essere stati duri anche per te, ma i giocattoli accumulati dovrebbero permetterti di ricompensarmi ora con i regali che ho tanto desiderato. Un Natale ricco dovrebbe iniettare nuova vita per aprire un nuovo e più promettente capitolo. Come sempre, le mie speranze sono alte; so che non mi deluderai», concludeva il report riassumendo, con una punta di ironia, le aspettative riposte nel nuovo corso di Unicredit. Presentando al mercato il piano industriale 2022-2025, giovedì 9 il ceo Andrea Orcel dovrà non solo mettere sul piatto obiettivi convincenti, ma anche dimostrare che la stagione dei sacrifici si è conclusa e che il gruppo può, per citare di nuovo il report di Mediobanca, posizionarsi «nell’Olimpo degli dei del ritorno di capitale».

I ricavi. La parte alta del conto economico è un problema per tutte le grandi banche commerciali. La politica monetaria espansiva ha infatti compresso il margine di interesse, riducendo al lumicino la tradizionale fonte dei ricavi del comparto. Per rispondere a questa situazione gli istituti hanno cercato di spingere sulle commissioni, traendo grandi vantaggi dalla presenza di fabbriche interne. Anche per questo in Unicredit far crescere i ricavi sarà senza dubbio la sfida più complessa, visto che negli anni scorsi la banca ha venduto molti gioielli della corona, dalle attività di asset management di Pioneer alla quota in Fineco sino ad alcune partecipazioni estere come quella nella polacca Bank Pekao o nella turca Yapi Kredi. Se la costituzione di fabbriche interne o la loro acquisizione non sono escluse, è possibile che in prima battuta Orcel decida di estrarre maggiore valore dalle partnership in atto, ridisegnandone la struttura sia nella bancassurance che nel risparmio gestito. Solo nelle polizze italiane per esempio sono in essere cinque joint venture sia nel ramo danni che nel vita: CreditRas Assicurazioni con Allianz, Incontra Assicurazioni con Unipol, CreditRas Vita di nuovo con Allianz, Cnp Vita con Cnp e, appunto, Aviva Vita sempre con Cnp. La sensazione è che Orcel voglia rivedere questo modello all’insegna della semplificazione, magari riducendo il numero di alleati. Sul fronte dell’attività commerciale, inoltre, il ceo potrebbe rivitalizzare il network, con una particolare attenzione per il mercato italiano. A maggio proprio questa finalità ha ispirato la riorganizzazione della prima linea con una segmentazione per aree geografiche e l’affidamento del mercato italiano a Niccolò Ubertalli.

Tecnologia. Non è sfuggita al mercato una delle prime nomine fatte da Orcel dopo l’insediamento. Quella cioè di Jingle Pang, la banker cinese ex Ping An Technology a cui il ceo ha convintamente affidato le redini della neonata divisione Digital come group digital&information officer. L’obiettivo nel medio termine è quello di trasformare Unicredit in una piattaforma con un’offerta integrata che possa competere non solo con gli intermediari tradizionali (tra cui lo spagnolo Bbva, appena entrato nel mercato italiano con un’offerta interamente digitale), ma anche con le fintech le cui quote di mercato sono in rapida crescita. Più in generale la tecnologia sarà un alleato indispensabile per quell’azione di semplificazione che dovrebbe essere il fulcro del nuovo piano. «Realizzeremo maggior integrazione della tecnologia nelle nostre attività e semplificheremo il nostro modo di lavorare rimuovendo gli ostacoli che ci impediscono di fornire ai nostri clienti un servizio adeguato», ha spiegato Orcel nei mesi scorsi.

Qualità dell’attivo. Le attività di de-risking sono state al centro dell’azione di pulizia compiuta dall’ex ceo Jean Pierre Mustier. Nel 2017, per esempio, c’era stato il progetto Fino, ossia la vendita di uno stock di oltre 17 miliardi a Fortress e Pimco, peraltro poi oggetto di cartolarizzazione gacs. Altri portafogli di dimensioni inferiori sono stati poi ceduti con un flusso quasi ininterrotto e oggi lo stock complessivo si è radicalmente ridotto. Se insomma la situazione è notevolmente migliorata rispetto a qualche anno fa, nel documento strategico la banca dovrebbe ribadire l’attenzione al mondo dei crediti deteriorati e, in particolare, agli unlikely to pay. Nei conti al 30 giugno scorso il portafoglio lordo per Unicredit ammontava a 13,4 miliardi, con un’incidenza del 2,95% sugli impieghi complessivi dell’istituto e un valore di bilancio di 6,7 miliardi rispetto ai 7,1 miliardi di sofferenze lorde. Sinora l’approccio è stato quello di trattare caso per caso le singole posizioni, mettendo in campo le competenze interne necessarie. Il lavoro, va da sè, è complesso. Gli utp sono crediti verso aziende finite in difficoltà che però possono ancora essere riportati in bonis grazie a interventi mirati. Si tratta insomma di un asset molto diverso rispetto alle sofferenze, che richiedono invece un approccio industriale e non liquidatorio. Ecco perché al vaglio del vertice di Unicredit ci sarebbero anche altre opzioni. Per esempio quella di stringere una partnership con un operatore industriale attivo nel settore del debt management.

Personale. Se venerdì 3 la banca e i sindacati interni hanno chiuso la procedura sulla riorganizzazione della rete commerciale prevista dal piano Team 23, la nuova strategia prevederà circa tremila esuberi a livello di gruppo (su 87 mila dipendenti). Le uscite dovrebbero essere su base volontaria e riguardare principalmente gli uffici centrali, all’insegna di quel lavoro di semplificazione dei processi e delle strutture su cui Orcel ha spesso insistito negli ultimi mesi. La ristrutturazione non dovrebbe invece interessare la rete commerciale, che anzi la banca vuole rilanciare dopo un periodo di appannamento. (riproduzione riservata)
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