di Marco Capponi
In pensione a 71 anni: il monito Ocse di inizio mese rischia di trasformarsi nel rischio più concreto per il sistema Paese nei prossimi anni, ma alcuni aspetti dovrebbero essere considerati con ancor più urgenza. Secondo Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e sottosegretario con delega al Welfare tra il 2001 e il 2005, è la premessa stessa a essere inesatta: «L’Ocse dovrebbe astenersi da previsioni simili: così sta creando allarmismo ingiustificato».

Domanda. Eppure, professore, questa soglia dei 71 anni fa paura…

Risposta. Il numero è teorico: supponendo un’aspettativa di vita che aumenta di 1,5-2 mesi ogni anno in Italia, un giovane che ora può andare in pensione con 64 anni di età ne avrà altri otto da lavorare. Detto ciò, a causa del Covid la speranza di vita non aumenterà fino al 2024: e se, giusto per fare un esempio, arrivasse un altro virus? Il conteggio si interromperebbe ancora. Ai giovani andrebbe dato un altro messaggio.

D. Quale?

R. Che per un semplice fattore demografico nel 2036 la domanda di lavoro sarà elevatissima e di riflesso aumenteranno i salari, ma con poca offerta. E la disoccupazione sarà soltanto intorno al 4%: questo perché ci saranno meno persone che lavorano.

D. Colpa dell’invecchiamento?

R. Non solo. In Italia ci sono circa 37 milioni di persone in età da lavoro, ma quelli che lavorano veramente sono 23 milioni. In Francia con la stessa popolazione i lavoratori sono 34 milioni. La politica deve muoversi e far lavorare la gente, o il Paese morirà di mancanza di occupazione prima che di eccesso di spesa pensionistica.

D. Quale deve essere il percorso da intraprendere?

R. Come primo passo ridurre la spesa assistenziale e gli ammortizzatori sociali e aumentare quella per le politiche attive del lavoro.

D. Per esempio con una riforma dell’Inps?

R. Si tratta innanzitutto di comunicare al meglio, in particolare all’Europa, i dati sulla spesa pensionistica: più che l’Inps sono l’Istat e la Ragioneria generale dello Stato a dover fare bene i conti. Se si vuole far bene al Paese non devono tagliare le pensioni, ma l’assistenza -reddito di cittadinanza, assegni familiari, prepensionamenti-, che è il vero punto debole nel sistema di welfare: nel 2019 le attività assistenziali a carico della fiscalità generale sono costate 114,27 miliardi di euro, con un incremento strutturale dal 2008 di oltre 41 miliardi.

D. Meno assistenza, più politiche attive per il lavoro.

R. Già a partire dalla terza media la scuola deve tracciare profili idonei per ciascun ragazzo e informare. Non è detto che tutti debbano studiare fino ad avere una laurea magistrale: ci sono le scuole professionali, le aziende, il settore della ristorazione. Dobbiamo capire che la scuola non è solo storia, geografia e scienze, per quanto queste materie siano importanti: la società cambia, e l’educazione finanziaria è un pilastro del cambiamento.

D. Esiste già una prova di questa mancanza di profili?

R. Certamente. Guardiamo al Pnrr: il piano ancora non è partito, e già mancano 600 mila profili professionali. Lo scollamento tra preparazione scolastica e mercato del lavoro è immenso. Se il Paese avesse un efficiente sistema di scuole professionali come la Germania le aziende attingerebbero da lì: invece in Italia non ci sono, e le figure specializzate si cercano all’estero.

D. E dopo la scuola?

R. Vanno messe in contatto offerta e domanda. Oggi in Italia abbiamo ancora i centri per l’impiego di 40 anni fa, che sono obsoleti, non sono presenti in rete, non hanno notizie se non per quello che riguarda la loro area geografica. Nell’era di internet siamo ancora fermi al taccuino.

D. Vanno ritoccate le regole sugli assegni pensionistici?

R. Con le regole di oggi la pensione sarà all’incirca pari al 70% dell’ultimo reddito se si è dipendenti, o al 63% per gli autonomi. Il meccanismo in sé è buono, quello che non va bene è il tasso di occupazione e, al contempo, redditi e salari, che negli ultimi 20 anni si sono ridotti.

D. Cosa ne pensa di quota 102?

R. Non mi piace parlare di quote: all’estero si parla di età e anzianità contributiva. Tuttavia, 64 anni di età e 38 di contributi sono numeri ragionevoli. Ovviamente se cresce l’aspettativa di vita dovrà aumentare anche l’età pensionabile, e questo punto di flessibilità è apprezzabile. E poi il costo rispetto a quota 100 è decisamente inferiore.

D. Oltre a sperare nell’assegno Inps, come può un giovane costruire il suo futuro pensionistico?

R. Se già lavora, l’idea di destinare 50-60 euro al mese a un fondo pensione è una buona forma di risparmio. Anziché sottoscrivere un abbonamento alle piattaforme di streaming potrebbe versare quella stessa quota in un fondo: poi il sacrificio tornerà indietro in futuro, nei momenti di bisogno. (riproduzione riservata)