Pagine a cura di Daniele Cirioli
Capodanno 2021 di buon auspicio per i pensionandi. Infatti, in senso contrario alla tradizione, c’è una buona notizia: dal 1° gennaio non ci saranno aumenti dell’età di pensionamento. L’Istat ha infatti registrato una variazione irrisoria della «speranza di vita» (pari a 0,025), cioè tale da non produrre effetti modificativi ai requisiti anagrafici di pensionamento. Dopo cinque anni di continuo allontanamento dell’età per la pensione, fino a 11 mesi (5 mesi solo da gennaio 2019, che si sono aggiunti ai 4 mesi dal 2016 e ai due dal 2013), c’è una tregua di quattro anni, 2019/2022, durante i quali resterà stabile a 67 anni, come oggi, l’età per la pensione di vecchiaia e quella per l’assegno sociale (la prossima verifica ci sarà dal 1° gennaio 2023). E pensare che fino al 31 dicembre 2012 la pensione di vecchiaia si riceveva a 66 anni (uomini) o 62 anni (donne). La novità va a favore soprattutto di quanti spegneranno le 67 candeline negli anni 2021 e 2022, i quali non dovranno lavorare «qualche mese in più», come si potevano aspettare negli anni passati.

Quando si può andare in pensione. Le variabili che condizionano l’accesso alla pensione (e anche la misura) sono due: l’età anagrafica e i contributi versati all’Inps. Un tempo l’età veniva fissata per legge ed era immodificabile, se non con legge. Oggi vige un criterio che automaticamente, cioè senza necessità di una specifica legge, produce aumenti al requisito d’età per l’accesso a tutte le pensioni: è la c.d. «speranza di vita». Questa altro non è che un modo per indicare un indice statistico, calcolato dall’Istat, che misura la probabilità di vita: se la vita si allunga, automaticamente si elevano anche tutti i requisiti anagrafici (l’età) per la pensione.

Dal 1° gennaio 2019 c’è stato il terzo adeguamento alla speranza di vita ed è stato di cinque mesi. I primi due ci sono stati a gennaio 2013 (due mesi) e a gennaio 2016 (quattro mesi). L’adeguamento 2019 ha contemplato alcune deroghe, previste dalla legge Bilancio del 2018. C’è stata l’esclusione dall’incremento della speranza di vita a queste situazioni:

• lavoratori dipendenti che svolgano da almeno 7 anni, nell’ambito dei 10 anni precedenti il pensionamento, le professioni di cui all’allegato B alla legge Bilancio 2018 e che siano in possesso di un’anzianità contributiva pari ad almeno 30 anni;

• lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti («usuranti», ex art. 1 del dlgs n. 67/2011), a condizione che le stesse attività usuranti siano svolte al momento dell’accesso al pensionamento e siano state svolte per una certa durata nel corso della carriera lavorativa e i lavoratori siano in possesso di anzianità contributiva non inferiore a 30 anni;

• lavoratori «precoci» (i lavoratori, dipendenti o autonomi, con almeno 1 anno di contribuzione per periodi di lavoro effettivo svolti prima del compimento del 19° anno di età);

• soggetti che godano, al momento del pensionamento, dell’Ape sociale.

Nessun aumento nel 2021. Il prossimo aumento alla speranza di vita era programmato con decorrenza dal prossimo 1° gennaio 2021. E qui c’è la buona notizia: non ci sarà alcun incremento della «speranza di vita» perché l’Istat ha registrato una variazione irrisoria della speranza di vita (cioè pari a 0,025), tale da non produrre alcuna variazione ai requisiti in essere. Di conseguenza rimarrà invariata a 67 anni fino al 31 dicembre 2022 (dal 1° gennaio 2023 è programmato il successivo aumento alla speranza di vita), tra l’altro, l’età per la pensione di vecchiaia e per l’assegno sociale. La notizia (soprattutto per chi compirà 67 anni nel biennio 2021/2022, i quali avrebbero dovuto attendere qualche mese in più prima di andare in pensione) è arrivata dal dm 5 novembre 2019 a firma del ministero dell’economia, pubblicato sulla G.U. n. 267/2019, che ha ufficializzato a zero la variazione Istat c.d. speranza di vita, registrata dalla popolazione residente nel biennio 2017/2018.

Ape sociale fino al 31 dicembre 2021. Un anno ancora di Ape sociale. Due le scadenze per fare istanza di riconoscimento del diritto, a disposizione di quanti si trovano o verranno a trovarsi, nel corso del 2021, nelle condizioni di accedere all’Ape sociale. La prima è al 31 marzo, la seconda al 15 luglio. Muoversi in tempo conviene: solo presentando domanda entro il 31 marzo si avrà diritto anche agli arretrati (da gennaio); altrimenti l’Ape decorrerà dal mese successivo alla richiesta. Chi farà domanda oltre il 15 luglio, comunque entro il 30 novembre, avrà l’Ape solo in presenza di risorse finanziarie sufficienti.

L’Ape sociale dà la possibilità di mettersi a riposo prima del tempo, in attesa di maturare l’età per la pensione di vecchiaia (67 anni anche nel 2021), a chi ha almeno 63 anni di età e versa in situazione di disagio economico, mediante erogazione di un sussidio mensile il cui importo massimo è di 1.500 euro lordi (a carico dello stato). Queste le condizioni:

a) aver cessato l’attività lavorativa;

b) non essere titolare di una pensione diretta;

c) trovarsi in una delle particolari «situazioni» indicate;

d) far valere un minimo di 30 anni di contributi (36 anni per chi svolge attività c.d. «gravose»);

e) maturare una pensione di vecchiaia d’importo non inferiore a 1,4 volte l’importo della pensione minima dell’Inps (circa 722 euro mensili nel 2020).

Le «situazioni» per il diritto. Potenziali interessati all’Ape sociale sono tutti i lavoratori iscritti all’Inps, compresi quelli della gestione separata. Il diritto si matura da parte dei soggetti che si trovano in una delle seguenti situazioni:

a) anzianità contributiva di almeno 30 anni e versare in stato di disoccupazione per licenziamento, dimissioni per giusta causa o per risoluzione consensuale intervenuta nell’ambito della procedura di licenziamento economico e aver concluso la fruizione, da almeno tre mesi, dell’intera indennità di disoccupazione spettante (Naspi, Dis-Coll, etc.). Rientrano in questa categoria anche i lavoratori il cui stato di disoccupazione deriva dalla scadenza naturale di un contratto a termine, a patto che abbiano avuto, nei 36 mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, periodi di lavoro dipendente per una durata di almeno 18 mesi;

b) anzianità contributiva di almeno 30 anni e al momento della richiesta dell’Ape sociale assistere, da almeno sei mesi, il coniuge, la persona in unione civile o un parente di I grado, convivente, con handicap grave (ex legge n. 104/1992); ovvero i parenti di II grado (conviventi), qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap abbiano compiuto 70 anni d’età oppure siano anche loro affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti (divorziati ecc.);

c) anzianità contributiva di almeno 30 anni ed essere riconosciuto invalido civile di grado almeno pari al 74%;

d) essere un lavoratore dipendente in possesso di anzianità contributiva di almeno 36 anni, che alla data della domanda di accesso all’Ape sociale svolge da almeno 7 anni negli ultimi 10, ovvero almeno 6 anni negli ultimi 7, in via continuativa, una o più delle previste attività gravose.

Per l’individuazione delle patologie invalidanti, in presenza delle quali la domanda di verifica delle condizioni di accesso all’Ape sociale può essere presentata anche da parenti di 2° grado o affini entro il 2° grado, l’Inps ha spiegato che, in assenza di esplicita definizione di legge, si fa riferimento solo alle patologie a carattere permanente, vale a dire:

1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell’autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche;

2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali;

3) patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario.

Sconto alle mamme. Uno sconto speciale è previsto a favore delle lavoratrici donne e, in particolare, alle «madri»: hanno diritto alla riduzione di 1 anno del requisito contributivo per l’accesso all’Ape per ogni figlio, fino a un massimo di 2 anni (quindi lo sconto massimo è di due anni). Ai figli legittimi sono equiparati quelli naturali e gli adottivi. Pertanto, le madri con due figli possono accedere all’Ape con 28 anni di contributi (34 anni, se risultano addette a lavori gravosi), mentre quelle con un figlio con 29 anni di contributi (35 anni per i lavori gravosi).

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