di Daniele Bonaddio
Occhio all’assegnazione a mansioni inferiori per stato di salute del dipendente. Infatti, il datore di lavoro è tenuto a risarcire il lavorare che è stato oggetto del cosiddetto «demansionamento» a causa del suo stato di salute, anche qualora lo stesso dipendente non risulti idoneo a compiere tutti gli incarichi derivanti dal suo livello di inquadramento. Quindi, se per esempio dalla documentazione medico legale risulti che un lavoratore è impossibilitato a svolgere solo singole tipologie di mansioni, che non esauriscono la complessiva gamma delle mansioni ricomprese nel livello di inquadramento, lo stesso ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. In ogni caso, ricade sull’azienda, a maggior ragione se di grandi dimensioni, l’onere di provare l’impossibilità di impiegare il lavoratore in attività appropriate al suo inquadramento. A stabilirlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 25394 dell’11 novembre 2020.

Il caso. La vicenda riguarda una lavoratrice che, a causa del suo stato di salute, era stata demansionata e intenzionalmente emarginata dall’organizzazione aziendale da parte del datore di lavoro. Il giudice di primo grado accertava l’illegittimità del demansionamento, ordinando al datore di lavoro di adibire la lavoratrice alle mansioni di competenza di cui al 3° livello del contratto collettivo applicabile. Tuttavia, il tribunale respingeva la domanda di condanna al risarcimento del danno alla professionalità, motivo per il quale la dipendente ricorreva alla Corte d’Appello di Venezia.

I giudici di merito, oltre a confermare l’illegittimità del demansionamento, condannavano la società a corrispondere alla lavoratrice anche il danno non patrimoniale subito. La società, però, impugnava la sentenza e ricorreva in Cassazione. Infatti, il datore di lavoro sosteneva che la lavoratrice fosse stata adibita a mansioni di secondo livello (inferiori) in quanto era impossibile reperire, a giudizio del medico competente, altre mansioni compatibili con le condizioni fisiche della stessa. Inoltre, il ricorrente riteneva che le sentenze di primo e secondo grado di giudizio non avessero tenuto conto del principio, ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale è consentita la adibizione a mansioni inferiori qualora sia l’unica alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ipotesi, questa, ricorrente nel caso di specie alla luce della riscontrata inidoneità alle mansioni di adibizione risultante dai certificati medici.

La sentenza. I giudici della Suprema Corte hanno respinto il ricorso della società. Gli ermellini, infatti, hanno rilevato che negli atti non vi era documentazione medica dalla quale risultava la inidoneità della lavoratrice allo svolgimento di mansioni di 3° livello per le quali la declaratoria contrattuale richiedeva «generiche conoscenze professionali». Inoltre, i giudici di legittimità hanno osservato che non vi era prova dell’impossibilità di adibire la lavoratrice in mansioni confacenti al livello posseduto tenuto conto che la società annoverava ben 1300 dipendenti.

Tra l’altro, dalla documentazione non risultava in alcun modo la inidoneità allo svolgimento di tutte le mansioni riconducibili al terzo livello. Difatti, le valutazioni mediche riportate si riferivano a singole tipologie di mansioni che non esaurivano la complessiva gamma delle mansioni ricomprese nel livello di inquadramento.

Infine, la Suprema corte ha precisato che ricade sull’azienda, a maggior ragione se di grandi dimensioni, l’onere di provare l’impossibilità di impiegare la suddetta lavoratrice in attività appropriate al suo inquadramento.

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