di Debora Alberici*
Rivolgere accuse infondate a un collega è mobbing. Il datore, in questi casi, è tenuto al risarcimento del danno per non aver garantito la serenità del dipendente dalle maldicenze degli altri. Con una delle pochissime pronunce che riconosce il mobbing, la Corte di cassazione – sentenza n. 27913 del 4 dicembre 2020 – ha condannato una srl a rifondere alla dipendente il danno per le condotte vessatorie degli altri. Condotte che avevano un esplicito intento persecutorio.

Non importa che il capo ufficio non si sia reso protagonista di tali offese e maldicenze perché ha comunque il dovere di garantire un ambiente di lavoro sereno.

La decisione si radica sul concetto di sicurezza sul lavoro che comprende anche l’esclusione di danni morali.

Infatti, ecco il principio al quale attingono gli Ermellini per risolvere il caso, la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

C’è di più. Per la Cassazione, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla donna, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c.

La sezione lavoro ha fissato un primo importante punto fisso sul mobbing, spesso perso di vista dai giudici: il datore dev’essere un «garante» a 360 gradi dei suoi dipendenti.

E questo dovere viene sancito espressamente dalla Costituzione ove è stato consacrato il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato, in considerazione del fatto che l’attività produttiva è subordinata alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità.

In altre parole, per la Corte, da ciò consegue che la concezione patrimonialistica dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa.

Ora la società dovrà rifondere la dipendente, che nel frattempo era stata licenziata, versandole quasi seimila euro per un’inabilità temporanea di 90 giorni.

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