Mancano ancora pochi passi, o meglio pochi acquisti, e poi Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio saliranno ciascuno al 5% nel capitale di Generali. Il primo, grazie a una lunga e costante marcia, è oggi al 4,73%; il secondo è al 3,86% e ha dichiarato di recente che il suo obiettivo è arrivare a Trieste a quella soglia e poi fermarsi.
Saranno per il Leone i «Mister 5%». Così, con questo soprannome era stato definito Salvatore Ligresti, che nei suoi anni d’oro aveva accumulato numerosi pacchetti azionari, spesso proprio di quelle dimensioni. Ma il richiamo è solo storico e qui si ferma. È significativo perché mette in evidenza una volta di più quanto sia cambiato il capitalismo italiano. Ligresti aveva messo in cassaforte svariate partecipazioni in settori diversi: da Italcementi a Pirelli, da Montedison a Cir, da Mediobanca a Generali. Un tesoro costruito e custodito con la logica del network, della presenza e sostegno reciproco che si traduceva in una galassia unita in patti di sindacato con comuni protagonisti: era la finanza promossa anche a tutela del capitale privato dal fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia.

Una geografia e una logica che oggi non esistono più: partecipazioni reciproche, accordi parasociali, compresenze nei board sono progressivamente tramontati, anche grazie alla spinta della stessa Mediobanca che nel nuovo corso dal 2003 ha abbandonato la struttura di holding di partecipazioni per concentrasi nel core business bancario. Attualmente la sola grande quota detenuta fuori dal perimetro di gruppo è appunto quella in Generali, pari al 13%, che fa dell’istituto guidato da Alberto Nagel il primo azionista della principale compagnia di assicurazioni italiana. Investimento importante anche per il contributo all’utile della banca, ma che potrebbe cambiare con il tempo, con una riduzione guidata anch’essa da logiche industriali, finalizzata cioè a liberare risorse al servizio di operazioni coerenti con il modello di business.

E torniamo ai nuovi Mister 5%. Caltagirone detiene una quota in Generali che oggi vale oltre 1 miliardo. Del Vecchio ha in portafoglio azioni del Leone per 875 milioni. Entrambi hanno impiegato quindi non pochi soldi (e altri ne impiegheranno) non per costruire una posizione finanziaria o rispondente a una logica di network bensì per diventare investitori attivi, con prospettiva di restare nel capitale a Trieste nel lungo periodo e di condividere il progetto industriale di crescita della compagnia e i suoi risultati, ovviamente anche in termini di dividendo. Con un aspetto ulteriore che a più riprese è stato messo in evidenza: entrambi concorrono a quel «nocciolo» di azionisti italiani, che comprende oltre a Mediobanca anche De Agostini (1,7%) e Benetton (3%) che rappresenta di fatto una garanzia per le radici nazionali del gruppo.
Proprio il mese scorso, il 21 novembre, il group ceo di Generali, Philippe Donnet, ha presentato il nuovo piano industriale al 2021 che indica, fra gli altri, un target di remunerazione complessiva nel triennio per gli azionisti di 4,5-5 miliardi. Circa la metà quindi degli oltre 10 miliardi che il gruppo prevede di avere a disposizione nel corso del piano. Altri 1,5-2 miliardi verranno utilizzati per ridurre debito e relativo costo, 3-4 saranno indirizzati alla crescita, organica o con acquisizioni mirate. Un ulteriore miliardo di risorse interne verrà diretto a innovazione e digitalizzazione. Il piano prevede cambiamenti nel business model complessivo: come ha detto Donnet illustrando le strategie alla comunità finanziaria, al termine Generali sarà «un gruppo di assicurazioni e asset management».

Prospettive che si allungano su un triennio mentre il gruppo triestino ha in maggio una scadenza «sensibile»: il rinnovo del consiglio di amministrazione. Probabilmente anche in vista di tale appuntamento e con l’esigenza di non creare solchi fra ideazione del business plan e sua realizzazione, soci rilevanti e consiglieri hanno cominciato a ragionare qualche tempo fa sulla opportunità di dare continuità alle figure apicali. Opzione dettata inoltre anche da ragionamenti sulla fase complessa che sta attraversando il nostro Paese e più in generale l’economia globale. Non va dimenticato il fatto che Generali è una multinazionale che raccoglie in Europa l’80% dei circa 70 miliardi di premi complessivi e che ha l’Italia un terzo del giro d’affari: ciò si traduce da un lato nel fatto che per le agenzie di rating il suo voto non segue necessariamente i destini del Paese (e infatti Moody’s non ha declassato il titolo del Leone dopo aver proceduto in tal senso con il nostro debito sovrano), e dall’altro che il gruppo ha comunque in portafoglio 58 miliardi di titoli di Stato italiani.
Così (dopo sondaggi fra gli investitori compiuti da Morrow Sodali) si arriva a una lettera, firmata dal vicepresidente Caltagirone e dalla maggioranza di consiglieri, compresi i due della lista Assogestioni, che chiede un cambio di statuto per togliere i tetti di età fissati per l’assunzione delle cariche di presidente, amministratore delegato e consigliere. E al voto del board, che si pronuncia a favore a maggioranza (con il voto contrario anche dei due rappresentanti di minoranza). Gabriele Galateri, che in gennaio compirà i 72 anni ed è presidente del Leone da otto, potrà così essere rieletto (il limite ai mandati non ha invece incontrato il favore del mercato). Un passo che non significa già una scelta sulla carica, che potrebbe essere diversa anche perché lo stesso Galateri potrebbe dirigersi verso Tim (venerdì è stato messo in lista da Vivendi), bensì una garanzia di possibile continuità.

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