DIREZIONE ANTIFRODE
La Cassazione si è pronunciata sui limiti dell’anonimato garantito ai dipendenti e sulla possibilità che questi possano svolgere in proprio attività investigative
Autore: F. Sulis e MR. Oliviero
ASSINEWS 303 – dicembre 2018
L’etimologia. Whistleblowing deriva dall’espressione idiomatica inglese “to blow the whistle”: “soffiare il fischietto” e rappresenta quella che noi chiamiamo comunemente “soffiata”. In questo caso da parte di un dipendente che denunci: condotte illecite, irregolarità apprese nell’esercizio delle sue funzioni.
Col noto decreto legislativo n. 190 contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” nel 2012 era già stata approntata in Italia una prima forma di tutela, limitatamente al pubblico impiego.
Sostanziali innovazioni normative sono state successivamente introdotte dalla legge n. 179 del 30 novembre 2017, entrata in vigore il 29 dicembre 2017. Oltre ad estendere la disciplina anche al settore privato, questa legge prevede alcuni preziosi strumenti giuridici per favorire le segnalazioni di attività illecite e irregolarità, tra cui, in primis, la segretezza dell’identità del denunciante.
Anche se recente, sulla portata e i limiti normativi del Whistleblowing si è più volte già pronunciata la Cassazione. Con la sentenza n. 9047, il 27 febbraio 2018 ha affrontato il tema dell’anonimato del denunciante mentre con la pronuncia n. 35792 del 26 luglio 2018 si è soffermata sulle attività che possono essere poste in essere dal lavoratore per acquisire informazioni su fatti illeciti in previsione di una eventuale, e futura, segnalazione.
Anonimato del denunciante
Rispetto al diritto all’anonimato garantito al denunciante, la Legge n. 179 del 30 novembre 2017 prevede che l’identità del segnalante non possa essere rivelata, specificando che nell’ambito del procedimento penale la stessa è coperta da segreto nei modi e nei limiti dell’art. 329 c.p.p. Obbligo del segreto: «Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari».
Con la sentenza n. 9047 del febbraio 2018 (ud. 31.01.2018) la Cassazione ha precisato che l’anonimato deve essere inteso come un “riserbo sulle generalità” che può operare unicamente sul piano disciplinare e durante le indagini preliminari di un procedimento penale.
Nonostante la protezione garantita dalla legge n. 179 del 30 novembre 2017, una volta concluse le indagini preliminari, per gli ermellini “non vi è alcuno spazio per l’anonimato” all’interno di un processo penale per il dipendente che ha rivelato un illecito.
Nel caso concreto posto all’attenzione della Suprema Corte, un dipendente dell’Agenzia del Territorio, sulla scorta di una segnalazione ritenuta dal ricorrente anonima, era stato indagato per: corruzione, atti contrari ai doveri di ufficio, truffa aggravata e falso ideologico.
Secondo la tesi difensiva sarebbero, quindi, stati valorizzati elementi tratti da una denuncia anonima, in spregio al dettato dell’art. 203 c.p.p. secondo cui non possono essere acquisite né utilizzate le informazioni fornite da informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza, se questi non siano esaminati come testimoni. La doglianza, in realtà, non ha trovato accoglimento presso i Giudici della VI sezione penale della Cassazione.
Nella sentenza viene, infatti, chiarito che la segnalazione in esame è estranea all’art. 203 c.p.p. perché opera, invece, il sistema di protezione previsto dalla normativa sul whistleblowing, di cui chiaramente si è avvalso il denunciante: utilizzando una casella di posta elettronica interna dedicata espressamente a questa funzione, con garanzia della piena riservatezza di colui che segnala, che, però, può essere facilmente individuato attraverso le credenziali di accesso al sistema informatico di posta elettronica.
Richiamando il provvedimento impugnato dal ricorrente, i giudici della Cassazione hanno quindi concluso che il soggetto che effettua la segnalazione è “individuabile seppure protetto”. La tutela del Whistleblowing è posta, dunque, in essere attraverso un sistema che consente di denunciare illeciti senza rivelare i propri dati identificativi, fintanto che si verta ancora nella fase delle indagini preliminari, di cui l’incolpato non possa avere conoscenza.
La riservatezza sulle generalità previste dalla normativa consente una efficace protezione del dipendente che denunci un illecito ma, anche a tutela dell’incolpato, e quindi nel rispetto di un efficace diritto di difesa, non può equivalere ad un anonimato in ambito penale, come espressamente sancito anche dal terzo comma dell’art. 333 c.p.p.: «Delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso».
La stessa Corte di Cassazione ha comunque affermato attraverso alcune sentenze che gli elementi contenuti in una denuncia anonima possono stimolare indagini del pubblico ministero e della polizia giudiziaria tese a verificare se dalla predetta denuncia possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis, così come espressamente previsto dalla Sentenza n. 34450 del 04.08.2016 sempre della VI sezione penale della Cassazione.
Le attività investigative svolte dai dipendenti
A distanza di pochi mesi la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata in materia di Whistleblowing per valutare se la nuova normativa consenta ai dipendenti di svolgere in proprio indagini investigative per raccogliere informazioni in funzione di una eventuale denuncia.
Il caso portato all’attenzione della Cassazione è stato sollevato da un dipendente di un istituto comprensivo, imputato per l’illecito accesso al sistema informatico dell’istituto. Secondo la tesi difensiva nel procedimento in esame sussisteva la causa di giustificazione a norma dell’art. 51 del Codice penale per “esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, essendo il ricorrente una persona incaricata di pubblico servizio.
In particolare, la condotta sarebbe stata posta in essere con la finalità di sperimentare la vulnerabilità del sistema informatico, e quindi, in adempimento dell’obbligo di informazione finalizzato alla prevenzione di fenomeni illeciti. Con la Sentenza n. 35792 del 26 luglio 2018 (ud. 21.05.2018) la Cassazione ha ritenuto, su questo punto, infondato il ricorso.
Se da un lato, infatti, con il whistleblowing si è inteso favorire l’emersione di fatti illeciti, apprestando maggiori tutele per coloro che li segnalano, dall’altro sono stati, comunque, posti dei precisi limiti inderogabili.
Attraverso l’interpretazione esegetica delle parole utilizzate dal legislatore, soprattutto, in riferimento alle notizie apprese “in ragione del rapporto di lavoro”, gli ermellini hanno chiarito che i fatti oggetto delle segnalazioni devono riguardare solo informazioni acquisite nell’ambiente lavorativo, esclusivamente nell’esercizio delle funzioni del singolo dipendente. Secondo i giudici, infatti, questa disciplina appronta una tutela per il soggetto che nel predetto ambito abbia appreso, e quindi poi rappresentato, fatti antigiuridici.
L’attività del dipendente virtuoso deve, quindi, limitarsi alla mera osservazione, al controllo e al contenimento delle azioni illecite altrui, mentre non è previsto alcun obbligo di acquisizione di informazioni ed investigazioni, dovendosi anzi ritenere che non sono assolutamente autorizzate improprie attività investigative in violazione del perimetro di competenze e di responsabilità previste dalla legge.
Sebbene, quindi, la legge abbia previsto maggiori tutele a favore dei whistleblower, anche al fine di incentivare le segnalazioni di condotte illecite, non vi è alcun “dovere di segnalazione” che autorizzi il lavoratore ad intraprendere attività investigative improprie, tanto più che è il legislatore stesso ad individuare espressamente i soggetti legittimati a compiere attività investigative, anche preventive.
Fermo restando, dunque, l’intento del legislatore di predisporre un sistema che incentivi le segnalazioni, tanto per il pubblico impiego quanto per il settore privato, la tutela del lavoratore non può ledere il diritto di difesa dell’incolpato né sono ammissibili improprie attività investigative.