di Anna Messia
Più della metà del fabbisogno pubblico italiano, il 53,2%, è assorbito dalla spesa per le pensioni, sanità e assistenza che ammonta a 439,4 miliardi. Di questi, poco meno della metà, ovvero 216 milioni, è ascrivibile alla voce pensioni. Il resto sono essenzialmente prestazioni sanitarie e assistenziali erogate a debito, i cui oneri sono finanziati facendo ricorso alla fiscalità generale e non riescono a essere efficaci davanti a una crisi economica perdurante che ha causato una crescente domanda di tutela da parte dei cittadini. Nel 2014, per esempio, per fornire copertura alle spese per sanità e assistenza è stato necessario ricorrere praticamente a tutto il gettito fiscale prodotto. Ma non è solo un problema di finanze pubbliche. Anche la spesa delle famiglie per cure e assistenza continua ad aumentare. Temi che sono stati al centro del convegno «White economy, innovazione e crescita. Energie pubbliche e private per i nuovi modelli», che si è tenuto il 29 novembre scorso a Roma alla presenza del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, di Carlo Cimbri, ad di Unipol , del presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi e del presidente dell’Istat, Giorgio Alleva. «Il Paese a livello demografico è cambiato completamente e sta invecchiando», ha osservato il presidente dell’Istituto statistico, aggiungendo che c’è un evidente «gap tra la percezione delle persone e lo stato reale delle cose». E la crisi economica non è certo stata di aiuto. Anzi.
In Italia la spesa per le prestazioni sociali è pari al 29,8% del pil, in linea con il resto dell’Europa che si attesta al 28,8%, ma nel corso della crisi la spesa pubblica per la salute si è fermata mentre quella delle famiglie ha continuato a crescere, ha spiegato Alleva aggiungendo che «una componente importante di questo welfare è costituito dalla rete familiare».

Un trend destinato ad accelerare di pari passo con l’invecchiamento della popolazione da una parte e la necessità di tagliare la spesa pubblica dall’altra. Per questo ci sarebbe bisogno di un piano 4.0 per il welfare, con un orizzonte di medio periodo, come già fatto per il piano Industria 4.0, ha suggerito il ministro Calenda. Il tema del welfare «è una questione cruciale ed è sociale, economica e politica», ha dichiarato. In una situazione economica incerta e nelle economie mature «il welfare e i servizi di assistenza alle persone rappresentano un grandissimo generatore di crescita», ha detto Calenda. Per questo ci sarebbe bisogno di avviare un ragionamento pluriennale che guardi ai prossimi 3-4 anni perché «per migliorare le cose ci vuole una pianificazione e il coordinamento con le regioni», mentre «politiche come quelle della defiscalizzazione non risolvono niente nel lungo periodo e possono essere utili solo a colmare le toppe. «Dobbiamo iniziare a discutere insieme con le Regioni, il settore privato e quello pubblico perché per fare una transizione di questo tipo servono molti investimenti iniziali che poi avranno dei benefici, ma bisogna fare fronte a reticenze interne e anche esterne», ha detto con forza il ministro.

E dal canto loro il settore privato, e in particolare le compagnie di assicurazione, sono pronte al confronto. «Il dialogo tra privato e pubblico deve essere fatto a monte», ha dichiarato Cimbri aggiungendo che valorizzare la white economy significa investire nella crescita economica e anche nella coesione sociale del Paese. In altri termini il welfare non deve essere considerato solo un costo a carico del bilancio pubblico ma piuttosto come una filiera importante dell’economia nazionale. «Il dialogo tra pubblico e privato deve essere fatto a monte, come succede nei Paesi più industrializzati come gli Stati Uniti», ha aggiunto Cimbri e «in ogni caso bisogna che venga garantita la qualità e l’uguaglianza delle prestazioni». Il rischio, altrimenti, «è che si possano creare pericolosi squilibri sociali e sistemi in cui l’accesso alle cure sia agevole solo per chi ha adeguate risorse personali».

Quali le proposte concrete? Dal convegno sono emerse alcune indicazioni che hanno preso spunto dal dibattito sviluppato da due tavoli di lavoro tenuti lo scorso ottobre su questi stessi temi. Come la richiesta che lo Stato favorisca il passaggio da un welfare monetario, orientato cioè al rimborso economico a un welfare di servizi. Le indennità di accompagnamento, per esempio, rappresentano un unicum italiano nel panorama mondiale e un grosso impegno di spesa, che si trasforma in elargizione di denaro pubblico senza controllo. Ma tra i suggerimenti c’è anche l’istituzione di un plafond unico di deducibilità per ogni spesa di welfare. Oltre che la spinta a incentivare le adesioni alla previdenza complementare, soprattutto la parte delle giovani generazioni che rischiano di essere pesantemente penalizzate.

Una questione sollevata anche dal presidente dell’Ivass, Rossi. «Bisogna avere un’integrazione tra pubblico e privato. Con le riforme pensionistiche siamo diventati più virtuosi (creando un sistema più sostenibile, ndr) ma il rovescio della medaglia è che un giovane che lavora oggi ha un tasso di sostituzione della pensione con il reddito che è sceso dall’80 al 50% e questo non basta più», ha dichiarato ricordando che bisogna agire anche sulla leva dell’informazione. «I giovani più degli altri hanno bisogno di integrare la propria pensione con un pilastro privato che stenta a decollare», ha concluso, «anche perché proprio loro sono quelli che non sono ancora consapevoli del fatto che la previdenza pubblica non svolge più il ruolo di prima». (riproduzione riservata)
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