di Rebecca Carlino
Se concluderà l’acquisizione di Pioneer, Amundi salirà di diverse posizioni nella graduatoria dei big player mondiali nell’industria di fondi e gestioni, fino ad arrivare nella top 10, dove ancora dominano gli asset manager Usa. Fatta eccezione per Pimco, che fa parte del gruppo tedesco Allianz , nelle prime posizioni si trovano infatti soprattutto società americane, che hanno però una forte presenza anche in Gran Bretagna. In particolare in testa alla classifica c’è il colosso Blackrock con 4.400 miliardi in gestione, seguito da Vanguard (3.100) e State Street (2.100). Per tutti e tre il segreto è stato quello di cavalcare la grande crescita dei prodotti indicizzati che hanno avuto un vero boom negli ultimi anni. Amundi nella stessa classifica, stilata nel 2016 da Investment e Pension Europe, è al 12esimo posto con asset intorno a 1.000 miliardi. Pioneer invece è a l 63esimo posto con 223 miliardi. Insieme potranno quindi risalire la classifica di diverse posizioni. Quando Unicredit e Amundi, che hanno annunciato di aver avviato il negoziato in esclusiva per la cessione, chiuderanno l’operazione ci sarà un colosso europeo tra i grandi big del risparmio.

La mappa dei grandi asset manager mondiali, di fatto, è anche uno specchio dell’attuale momento economico, con i nomi Usa che rispecchiano la ripresa dell’economia americana e tedeschi e francesi che riescono a restare bene in partita. Mentre l’Italia, che pure ha una forte base di risparmio, non ha visto nascere un grande colosso che abbia numeri paragonabili a quelli della top 20 mondiale. Generali Investment Europe è infatti solo al 35esimo posto con circa 400 miliardi di asset al 31 dicembre 2015. La classifica per avere dati omogenei per tutti gli attori tiene conto del patrimonio al 31 dicembre 2015, ma quest’anno raccolta e performance hanno fatto salire ulteriormente la ricchezza gestita dei big.

Ma l’operazione Amundi potrebbe anche aprire le danze di una nuova stagione di M&A, tanto più che negli ultimi anni nel mondo dell’asset management acquisizioni e fusioni sono state poche. Dalla crisi del 2008 nell’industria si sono contate solo una ventina di operazioni sopra i 50 milioni di euro di controvalore. Goldman Sachs in uno studio dedicato a questo settore sottolineava come il dato fosse sorprendentemente basso, vista la forte generazione di cassa di questo business e la presenza ancora di un mercato molto frammentato. Peraltro l’investment bank Usa indicava proprio in Amundi una delle favorite a inaugurare la nuova stagione. Se molte delle operazione viste negli ultimi anni sono apparse più il frutto di operazioni opportunistiche che hanno portato all’acquisizione di società in difficoltà, negli ultimi tempi si iniziano a vedere operazioni che sembrano nascere da precise strategie di sviluppo.

Il primo obiettivo può essere quello legato alle potenziali economie di scala e in questo caso rientra l’acquisizione da parte di Aberdeen di Scottish Widows, oppure l’acquisto può essere volto alla necessità di acquisire competenze in particolari aree, come è stato per il gruppo Man quando ha acquistato Silvermine e Numeric. Infine c’è chi entra nell’arena per potenziare la propria capacità distributiva. In quest’ultimo caso rientra l’operazione di Arca sulle attività di asset management di Banca Carige .

Per quanto riguarda l’Italia l’asset manager francese guidato da Yves Perrier, in base ai dati Assogestioni aggiornati alla fine del terzo trimestre, contava su un patrimonio gestito di 42,7 miliardi di euro, mentre Pioneer è il terzo gestore con 146 miliardi, quindi insieme arriverebbero a oltre 188 miliardi. E per la prima volta un asset manager estero conquisterebbe il terzo posto della classifica degli asset, dietro a Generali (474 miliardi sempre a fine settembre) e Intesa Sanpaolo (367 miliardi).

Le prossime a muoversi potrebbero essere Anima e Poste, che non hanno voluto rilanciare nella corsa per Pioneer, ma sono pronte a nuove acquisizioni. Il gruppo guidato da Francesco Caio ha finalizzato il piano di rafforzamento dell’alleanza con Anima Holding a cui conferirà, entro la prima metà del 2017, BancoPosta Fondi Sgr. A seguito di tale operazione, Poste aumenterà la sua quota di partecipazione in Anima dal 10,3% al 24,9% diventando così l’azionista di riferimento di un campione nazionale dell’industria con circa 145 miliardi di masse gestite. In una nota Poste ha sottolineato che «considera la crescita per acquisizione uno degli elementi del suo piano di sviluppo, a condizione che gli investimenti vengano orientati su aziende con forti sinergie strategiche e industriali e che i valori investiti siano coerenti con le prospettive di ritorno per gli azionisti”.

D’altronde, l’industria dell’asset management è caratterizzata da ritorni alti, una buona capacità di generazione di cassa e bassi requisiti di capitale. Un mix particolarmente interessante in questo momento in cui banche e assicurazioni devono fare i conti sull’impatto dei tassi bassi sui loro margini e nel frattempo rispondere alla richiesta di una sempre maggiore forza patrimoniale richiesta dalle autorità, in modo da evitare che si possa ripresentare una crisi delle dimensioni di quella del 2008. A differenza di quanto è avvenuto per le banche, proprio gli asset manager in questi anni sono riusciti ad accumulare capitale in eccesso, che è costoso da mantenere in una situazione di costo del denaro a zero. C’è quindi tutto l’incentivo affinché questo capitale venga utilizzato per crescere. Il tutto in un’industria che si presenta ancora frammentata e che quindi offre ancora spazio per aggregazioni che consentano economie di scala o un’offerta più efficace. Una strategia che può essere anche di difesa in vista delle sfide che aspettano i gestori. Da una parte la sempre maggior diffusione dei prodotti indicizzati porteranno a una pressione ad abbassare le commissioni. Dall’alto, dopo anni di rally dei mercati che avevano abituato i clienti a performance da record, gli asset manager dovranno attrezzarsi per una fase di maggiore instabilità e di potenzialità di rendimento più contenute. Infine anche questa industria dovrà affrontare le sfide che porta con sè l’evoluzione tecnologica, che può permettere di ridurre i costi, ma che abbatte le barriere all’ingresso. Come hanno potuto sperimentare i tassisti con Uber o gli alberghi con Airbnb, i gestori dovranno fare i conti con la fintech.

Molte ricerche condotte sul settore sono arrivate alla conclusione che gli asset manager per crescere ancora dovranno essere capaci di dimostrare di produrre valore e questo lo potranno fare attraverso campagne di marketing, misure rivolte alla distribuzione e politiche di prezzo mirate. Di fatto, vincerà chi saprà sviluppare e utilizzare sistemi avanzati che consentano di tagliare la propria offerta in base a cosa può rivelare l’analisi dei cosiddetti big data.

Detto questo, il fattore umano resta importante in questo business. Una ricerca di Greenwich associates ha rivelato che la capacità di persuasione e le abilità di presentare l’offerta saranno sempre più critiche per gli investment manager che vogliano ottenere mandati di gestione da chi controlla gli asset istituzionali, quali fondi pensione e fondazioni. Ma soprattutto vanno convinti i loro consulenti. Sempre Greenwich Associates ha calcolato che l’86% degli investitori istituzionali Usa e il 92% di quelli britannici si appoggia a consulenti per prendere le proprie decisioni di investimento. Un paradigma che può essere applicato anche quando si va ad analizzare il mercato retail, dove l’acquisto dei fondi è intermediato dagli sportelli bancari o dai promotori finanziari. E proprio questi ultimi in Italia hanno dimostrato soprattutto negli ultimi otto anni, dalla crisi dei subprime in poi, di garantire ai gestori una buona capacità di tenuta nei momenti difficili di mercato e un’ottima capacità di raccolta nelle fasi positive. Da inizio anno a fine novembre Banca Generali ha registrato una raccolta di 4,9 miliardi, Banca Mediolanum di 4,5 miliardi, Finecobank 4,15 miliardi e Azimut di 5,8 miliardi. (riproduzione riservata)
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