Come anticipato da MF-Milano Finanza, per spingere i rendimenti fondi e casse studiano un veicolo che investa nell’economia italiana. Potrebbe mobilitare subito 4 mld, con buoni effetti sulla crescita

di Paola Valentini

Il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan si è detto pronto a sostenere il progetto nel ruolo di facilitatore. Non una cabina di regia, dunque, ma un supporto che crei le condizioni favorevoli affinché i fondi pensione, come anticipato da MF-Milano Finanza lo scorso 16 dicembre, su base volontaria mettano le proprie risorse al servizio dell’economia italiana, oggi più che mai bisognosa di risorse in un momento in cui i capitali provenienti dal canale bancario canali sono insufficienti a sostenere la ripresa che solo ora sta prendendo forza dopo anni di profonda recessione.

E il momento, spiega Mauro Marè, presidente del Mefop, e docente all’Università della Tuscia, è quello giusto.

«Gli investitori istituzionali italiani come i fondi pensione e le casse di previdenza di primo pilastro hanno 210 miliardi di patrimonio, il 13% circa del Pil, ma di questa somma oggi soltanto una minima parte, tra l’1 e il 4% a seconda del tipo di fondo o cassa, affluisce alle azioni o alle obbligazioni di società italiane. Eppure il tessuto economico ha bisogno di risorse nuove in un contesto in cui le banche prestano sempre meno», dice Marè. All’estero invece gli investitori istituzionali impiegano nei rispettivi Paesi di residenza circa metà del patrimonio. «Naturalmente si tratta di mercati dove il sistema finanziario è molto più sviluppato di quello italiano con una presenza diffusa di pmi quotate e una serie di prodotti ad hoc.

In Italia invece», prosegue Marè, «il contesto finanziario storicamente non ha agevolato l’esposizione all’economia nazionale dei fondi pensione». Ma non è questo il solo problema. «C’è stato per anni anche un sistematico pregiudizio verso l’investimento nell’economia reale da parte del mondo della previdenza», prosegue Marè, «per fortuna ora questo tipo di ostacolo è stato finalmente superato e non soltanto i fondi pensione, ma anche le organizzazioni sindacali e Confindustria, si sono dichiarati favorevoli agli investimenti in Italia». Un cambiamento di rotta nel quale ha avuto un ruolo non secondario la forte discesa dei rendimenti degli asset tradizionalmente molto presenti nei portafogli dei fondi pensione come i titoli di Stato che, con i tassi vicini allo zero, oggi non permettono più di ottenere risultati sufficienti a sostenere le pensioni future.

«La storia di tanti Paesi mostra quali benefici in termini di crescita dell’economia e anche di rendimenti può dare un portafoglio diversificato e investito nell’economia italiana. Senza crescita del pil non ci saranno né le pensioni di primo né quelle di secondo pilastro perché l’andamento dell’economia ha un effetto diretto su quanto i fondi pubblici e privati possono offrire», afferma Marè. Senza dimenticare i rischi politici. E qui la memoria va a Stati come la Polonia, l’Ungheria o l’Argentina dove i fondi pensione sono stati statalizzati dall’oggi al domani. «Una maggiore diversificazione rafforza il profilo di gestione finanziaria e rende le risorse dei fondi pensione più libere, in altre parole ne riduce l’appetibilità da parte di terze parti», spiega Marè. In questo processo, il ministero dell’Economia si è dichiarato favorevole a svolgere un ruolo di incentivo e di stimolo ai fondi pensione purché aiutino l’economia italiana. «Credo che l’atteggiamento del ministero sia un elemento molto importante da apprezzare perché crea il giusto contesto e la corretta dose di fiducia affinché gli enti previdenziali investano nell’economia italiana con autonomia e indipendenza e in base a un approccio del tutto volontario», afferma Marè.

Ma per fare questo, di quali hanno bisogno condizioni per cui fondi pensione e casse previdenziali? «Questi investitori in più occasioni si sono mostrati disponibili a costituire un fondo per l’economia italiana e il governo ha dichiarato la disponibilità a concedere incentivi fiscali a questo fondo. Le discussioni tra le parti sono a buon punto e mi auguro quindi che rapidamente questa soluzione possa vedere la luce», continua Marè. Nonostante fondi e casse abbiano un diverso dna, l’unione tra i due tipi di operatori «darebbe allo strumento una massa critica consistente rendendolo più forte in termini di dimensioni e impatto», afferma Marè. La soluzione migliore quindi sarebbe un fondo comune tra questi due soggetti. «Andrebbe comunque bene se fondi e casse decidessero anche di fare due veicoli separati, l’importante è che si realizzino maggiori investimenti nell’economia reale italiana in modo da potenziare la crescita per rendere più sostenibile il primo pilastro, aumentare l’occupazione e accrescere i rendimenti di un patrimonio, quello dei fondi pensione, che oggi per circa il 90% è investito in titoli di Stato», avverte Marè.

Sul fronte delle dimensioni di questo fondo, «la disponibilità emersa nell’ambito dei colloqui tra i fondi indicava un ordine di grandezza di 2-4 miliardi», spiega Marè. E l’idea è di investire tramite un fondo di fondi perché « la gestione diretta richiede capacità ad hoc data la complessità delle normative e della governance dei singoli settori che sono appannaggio di operatori specializzati. Il fondo poi potrebbe investire in comparti già esistenti oppure creati per l’occasione», dice Marè.

Il presidente del Mefop poi si inserisce anche in altri due temi caldi per la previdenza complementare, ovvero le dimensioni dei fondi pensione e le ancora basse adesioni.

Sul primo punto, si tratta di aumentare l’efficienza. «Concordo che si possa procedere ad accorpamenti, penso però che sia un errore fissare un numero di iscritti minimo, al limite si potrebbe dare ai fondi un numero di anni entro cui decidere in autonomia come aumentare la propria dimensione», afferma Marè.

Anche l’altra questione sul tappeto, quella del basso numero di iscritti, va affrontato secondo Marè evitando imposizioni. Attualmente gli aderenti a fondi pensione sono un quarto della forza lavoro con una modesta crescita rispetto al 22% del 2007 quando era stata varata l’adesione alla previdenza complementare con il meccanismo del silenzio assenso. «Tra i motivi della non adesione ai fondi pensione ci sono la mancanza di risparmi, c’è infatti innegabilmente un problema di reddito: il mercato del lavoro è cambiato, non si riesce ad accumulare per il primo pilastro, figuriamoci per il secondo», spiega Marè. In alcuni casi a pesare è l’ignoranza e anche l’inerzia.

 

Ma non mancano i pregiudizi. «Dalle ultime indagini campionarie che il Mefop ha realizzato emerge che c’è un 20% di italiani che non si fida e ha un pregiudizio sistematico nei confronti della previdenza complementare come forma di risparmio», dice Marè. Come convincerli? Il dibattito è aperto e c’è chi propende per l’introduzione di forme obbligatorie di adesione sul modello di Paesi come la Gran Bretagna. Cosa che Marè non condivide. «Resto convinto che l’adesione debba restare volontaria perché credo che l’obbligo possa essere percepito come una forma di prelievo forzoso con la conseguente richiesta di garanzie, ma le garanzie oggi non esistono più, né nel pubblico, né tanto meno nel privato. Il rischio», prosegue Marè, «è dappertutto e pensare che ci sia un investimento ottimale nel mondo che copra dai rischi è sbagliato: ci sono strumenti diversi con grado di rischio diverso, il rischio è assicurabile, diversificabile, ma non eliminabile». La volontarietà dell’adesione comporta però la ripresa di «massicce campagne informative con l’obiettivo di far capire agli italiani che il tasso di copertura del primo pilastro sarà più basso», afferma Marè. C’è poi un’ulteriore soluzione che consentirebbe di far percepire al lavoratore la presenza del fondo pensione senza pesare sulle sue tasche. È la strada presa dal fondo negoziale degli edili. Prevedi ha infatti introdotto l’adesione obbligatoria con il solo contributo del datore di lavoro (circa l’1% dello stipendio) lasciando libero il lavoratore di versare anche il proprio contributo e il Tfr. «Una buona soluzione perché l’iscrizione non viene vista dall’individuo come obbligatoria e raggiunge con costi bassi l’obiettivo di far aderire i lavoratori al fondo pensione, laddove spesso le campagne informative rischiano di fare più fatica a raggiungere questo risultato per inerzia e ignoranza, tutti atteggiamenti ben noti alla finanza comportamentale», prosegue Marè. «Non a caso Gran Bretagna e Danimarca, dopo massicce campagne informative hanno capito che l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto e hanno introdotto un’iscrizione semi-automatica», ricorda Marè, «ma in Italia i tempi non sono maturi per un approccio che preveda un certo grado di obbligatorietà», conclude Marè. (riproduzione riservata)