La filiera della cura, dell’assistenza e della previdenza per le persone vale 290 miliardi e 3,8 milioni di occupati. Ecco perché la white economy può diventare un volano per dare slancio alla ripresa

di Andrea Di Biase

La crisi dello Stato sociale e dei sistemi di assistenza pubblica si è fatta ancora più acuta a causa della lunga crisi che ha investito l’economia europea, e quella italiana in particolare, negli ultimi anni. Ma il ripensamento in corso del sistema di welfare nazionale, pur rappresentando una sfida complessa, se affrontato nel modo corretto, può rappresentare una grande occasione per rilanciare l’economia e l’occupazione. È questo uno degli aspetti chiave emersi nel corso della presentazione del Rapporto 2015 «Welfare, Italia-Laboratorio per le nuove politiche sociali» di Censis e Unipol, tenutasi giovedì 10 dicembre a Roma.

La white economy, cioè la filiera di attività sia pubbliche sia private riconducibili alla cura e al benessere delle persone, ha ormai raggiunto un valore di 290 miliardi di euro, corrispondente al 9,4% della produzione complessiva nazionale, con circa 2,8 milioni di addetti che operano in maniera diretta nei suoi diversi comparti. A questi vanno aggiunti i posti di lavoro che si generano «a monte» e «a valle» come indotto delle attività considerate, che innalzano il numero degli addetti totali a 3,8 milioni, pari al 16,5% degli occupati del Paese. La white economy produce insomma più dei settori delle costruzioni e dei trasporti, ed è seconda solo al commercio. Ma anche in termini di impatto sul sistema Italia nel suo complesso, i dati raccolti nel rapporto mostrano l’importanza di questo settore non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello economico, considerato che ogni 100 euro spesi o investiti nella white economy attivano 158 euro di reddito aggiuntivo nel sistema economico.

Mettere mano al welfare nazionale non è comunque una sfida semplice, anche se le dinamiche demografiche e quelle di finanza pubblica rendono comunque un intervento ineludibile. Se da un lato l’allungamento della vita media delle persone ha reso necessario un ampliamento dell’offerta sanitaria e assistenziale, dall’altro l’impossibilità per lo Stato di fare ricorso come in passato al deficit di bilancio per finanziare questi servizi sta facendo sì che il sistema di protezione pubblico italiano, così come strutturato fino a oggi, non sia più in grado di reggere questa domanda crescente da parte di una popolazione sempre più anziana. Come evidenziato nel Rapporto di Censis e Unipol, la spesa sanitaria complessiva ha toccato il suo tetto massimo circa due anni dopo l’inizio della recessione economica mondiale. Da quel momento ha iniziato una parabola discendente in termini reali. La parte pubblica è stata messa sotto controllo perché la sua crescita non era compatibile con le esigenze di contenimento del deficit nazionale. Ma la crisi si è fatta sentire di più sulla dinamica della spesa privata. In termini reali negli anni della crisi la spesa sanitaria privata è infatti diminuita più della spesa pubblica (-7,3% la prima, -3,4% la seconda).

La parte privata ha risentito delle difficoltà economiche delle famiglie che hanno assunto atteggiamenti di maggiore prudenza verso la spesa complessiva, compreso anche l’acquisto di farmaci e delle prestazioni sanitarie. In altre parole, le famiglie hanno fatto un costante arbitraggio di tutte le loro esigenze, includendo tra queste le stesse prestazioni di cura. Là dove ritenevano possibile rinviare l’hanno fatto, sia che si trattasse dell’acquisto di un bene sia di una prestazione sanitaria ritenuta non particolarmente urgente o grave. Lo si vede nei dati relativi alla variazione dei consumi delle famiglie nell’intervallo 2007-2014. La contrazione della spesa sanitaria (-7,3%) è molto inferiore rispetto ad alcuni specifici settori (beni durevoli e trasporti, soprattutto), ma è superiore ad altri (le spese per la ristorazione, ad esempio). L’effetto depressivo sui comportamenti privati derivante dalla crisi si evidenzia osservando l’andamento della spesa in valori pro-capite: tale spesa, che nel 1999 oscillava intorno ai 600 euro, è cresciuta fino a 623 euro nel 2008, per poi crollare nei cinque anni successivi. Questo, sostiene il Rapporto di Censis e Unipol, nonostante nel Paese stia progressivamente passando l’idea che la grande macchina del sistema di protezione pubblico, inclusiva abbia perso potenza e non sia più in grado di accelerare.

È quello che è stato definito il paradosso del welfare: ciò che dovrebbe essere fonte di rassicurazione per i cittadini, sembra essere diventato esso stesso oggetto di ansia e di preoccupazione. Sono infatti meno di un quinto del totale le famiglie italiane che si sentono del tutto protette dal welfare. La gran parte, più della metà, pensano di essere coperte solo sui grandi rischi, mentre una quota importante (più del 25%) è del tutto disillusa e non si aspetta più nulla. Eppure, nonostante la crescente sfiducia nella tutela offerta dal pubblico, il meccanismo di intermediazione delle risorse delle famiglie verso sistemi e meccanismi di protezione privati cresce con lentezza, non trovando ancora una spinta vitale. In un decennio la spesa privata per la salute intermediata dalle assicurazioni sanitarie è cresciuta di meno di 5 punti percentuali e, negli anni della crisi si è sostanzialmente arrestata. Ad oggi la quota di spesa sostenuta attraverso assicurazioni o sistemi analoghi in Italia è del 18%. Questo segna la differenza non solo con i Paesi, dove il modello privatistico è il cuore del sistema di protezione, ma anche nei confronti dei paesi europei dove il «doppio pilastro» è il modello di riferimento .

Quello dell’assistenza alle persone non autosufficienti è l’altro grande problema con il quale si confrontano oggi le famiglie italiane. Da un lato per il processo di invecchiamento della popolazione, dall’altro per la progressiva contrazione delle prestazioni del welfare pubblico, che deve fari i conti con una domanda crescente e con i vincoli finanziari. La domanda attuale è alta e in crescita: sono più di 3 milioni le persone che soffrono di difficoltà funzionali gravi. Il 40% vive nelle regioni meridionali e il 50,1% versa in cattive condizioni economiche. Tra queste persone, 1,4 milioni sono confinate all’interno della propria abitazione e bisognose di cure diurne e notturne. Di fronte a ciò, sulla frontiera dell’assistenza, ancora una volta ci sono le famiglie che devono farsi carico di tutte le funzioni di assistenza dei componenti in condizioni di disagio o di disabilità conclamata. Anche in questo caso siamo di fronte ad un modello del tutto spontaneo ad elevata molecolarità basato su: 1) lentezza con cui il welfare pubblico progetta ed introduce meccanismi di long term care centrati su soluzioni diverse dall’ospedalizzazione; 2) difficoltà, in essere ormai da qualche anno, del sistema di welfare pubblico nel convogliare risorse aggiuntive nel settore dell’assistenza; 3) difficoltà economica, ma anche culturale, delle famiglie italiane a valutare soluzioni residenziali per persone non autosufficienti; 4) crescente spesa delle famiglie per il personale da impiegare nell’assistenza dei portatori di bisogni.

«Le risorse pubbliche, più limitate rispetto al passato, ci inducono ad avviare un sistema che sia in grado di integrare le garanzie dello Stato», ha spiegato a margine della presentazione del Rapporto l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri. «In quanto assicuratori ricopriamo una funzione sociale e ci sentiamo naturali alleati dello Stato e possiamo contribuire a rendere più efficienti i costi di una macchina complessa come la sanità, dove ci sono grosse differenze tra le varie regioni d’Italia». (riproduzione riservata)