Banca d’Italia ha mostrato incertezze nei salvataggi, forse anche per il conflitto d’interessi tra vigilanza e risoluzione. Sotto accusa anche il mancato intervento dei governi passati a favore del sistema creditizio

di Paolo Savona

Il dibattito che si è aperto dopo la «sistemazione» delle quattro banche in crisi si è svolto in gran parte su temi che non riguardano l’architettura istituzionale di protezione del risparmiatore. Essendo stato allievo dei due grandi studiosi delle crisi finanziarie e bancarie – Charles Kindleberger, mio tutor al Mit di Cambridge, e Hyman Minsky, che chiamai in Confindustria per studiare la condizione delle banche italiane dopo la crisi petrolifera – e avendo presieduto il Fondo Tutela Depositi fin dalla fondazione, credo di poter affermare che la protezione del risparmiatore è uno dei problemi più difficili da gestire, perciò l’obiettivo non va abbandonato o reso ancora più difficile da perseguire con legislazioni errate come quelle finora varate.

La direttiva europea, chiamata del bail-in, non si prefigge di proteggere i depositanti bancari ma i bilanci pubblici, celando questa istanza (una vera fissazione della politica europea) dietro due nobili motivazioni: quella di non far gravare sulla collettività gli oneri causati da operatori incauti o da truffe finanziarie e quella di evitare che gli interventi di salvataggio delle unità in crisi si configurino come aiuti di Stato che alterino il corretto funzionamento del mercato; non si tiene però conto delle profonde diversità tra le sue componenti reali e finanziarie, quelle stesse che hanno portato alla grave crisi in corso. In breve, il risparmiatore perde ogni protezione in nome di istanze «superiori».

La ratio della protezione concessa è che il depositante è sprovveduto di informazioni, perché non gli vengono date o perché l’organo di vigilanza che ne dispone non può renderle pubbliche. La stessa protezione viene invece rifiutata ai risparmiatori in azioni e obbligazioni, perché le informazioni vengono messe a disposizione prima della loro emissione e si giustifica la richiesta di una maggiore responsabilità dell’investitore; ma queste vengono fornite in modo così complicato che una clientela priva di cultura finanziaria è facilmente aggirabile «dall’uomo allo sportello», il quale non di rado è incentivato a collocare i titoli offerti spingendolo a comportamenti errati, per poi invischiare l’intero sistema bancario in conseguenze pratiche più gravi, come quelle che stiamo vivendo. In due precedenti articoli su questo stesso giornale ho indicato quali fossero i punti deboli dell’attuale protezione dei risparmiatori bancari, avvertendo anche il commissario Ue Lord Hill, il quale aveva promesso di correggere la direttiva. La realtà che incombe è il peggioramento del trattamento di garanzia che andrà in vigore dal 1° gennaio, che considero una mina sul percorso dell’economia e della società italiane. Ma non è su questi punti che intendo tornare, bensì su due problemi di fondo che non sono emersi nel dibattito riguardante la sistemazione delle quattro banche in crisi. Il primo riguarda le responsabilità della crisi che il sistema bancario italiano ha dovuto subire dal 2008 in poi e che era sembrato potesse assorbire, e di fatto ha assorbito, contando sulle sue forze, contrariamente ai sistemi bancari di altri Paesi, per i quali l’intervento degli Stati è stato cospicuo e legittimato dall’Ue. Affermarlo con il senno di poi è certamente un pietoso tentativo di celare la valutazione miope del problema da parte delle nostre autorità di controllo e di governo, nonché delle stesse banche. Il sistema bancario italiano ha fatto certamente errori di valutazione del merito di credito, ma la gran parte dei suoi problemi nascono da politiche finanziarie errate degli Stati Uniti, passivamente accettate e accentuate da gran parte del resto del mondo, con in testa la City di Londra, che ha avuto il ruolo principale nella diffusione dei derivati, inclusi i titoli subprime. Il sistema bancario italiano, salvo poche eccezioni, è restato in buona parte immune dalla crisi finanziaria mondiale perché «non parlava inglese», ma è restato coinvolto dagli effetti reali di quella crisi. In ogni caso la responsabilità di ciò che è successo è per la maggior parte delle autorità ed esse devono darsi carico di rimediare, senza ignobilmente coinvolgere i risparmiatori bancari e finanziari, invocando il sacro principio delle alterazioni di una concorrenza che, con le loro errate filosofie dei mercati finanziari perfetti, della benevola disattenzione verso le innovazioni finanziarie (rivelatasi malevola) e (in Europa) della stabilità fiscale, hanno esse stesse per prime sconvolto. Anche per questo dovrebbero vergognarsi di negare le loro responsabilità, celandole dietro principi generali validi per altre situazioni. Il secondo riguarda l’architettura del sistema di vigilanza e risoluzione. Le accuse che vengono rivolte alla Banca d’Italia di omissioni di vigilanza sono ingiuste, perché il sistema da essa gestito è il migliore tra quelli conosciuti ed è su questo pilastro, oltre che su un inglese imperfetto delle banche, che il sistema bancario è uscito quasi indenne dalla crisi finanziaria mondiale, ma è incappato nella crisi produttiva che ha colpito maggiormente l’economia italiana, di cui sono note le debolezze strutturali. Parlo per cognizione di causa, non per simpatie o reazioni emotive. La Banca d’Italia ha invece mostrato ancora una volta pregiudizi e incertezze nella fase di soluzione delle crisi bancarie da affrontare, che ne hanno peggiorato le conseguenze. Ripeto ancora una volta che l’autorità di vigilanza non può essere la stessa dell’autorità di risoluzione, come accade nei principali Paesi del mondo. Esiste un inevitabile conflitto di interessi. L’organo di risoluzione deve essere composto in modo diverso, lasciando alla Banca d’Italia un ruolo consultivo, magari con carattere obbligatorio perché più addentro alle ragioni della crisi. Perderebbe il ruolo tecnico ma manterrebbe quello politico, in cui essa presenta le migliori performance della sua storia, anche perché può contare sulla sua indipendenza.

 

I motivi di una siffatta riorganizzazione sono ovvii: la risoluzione affidata alla stessa struttura di vigilanza tenderà a coprire eventuali errori commessi dai suoi funzionari, che sono uomini come gli altri, e da commissari da essa designati, non di rado impreparati e sottoposti a vincoli nella loro azione da parte della Banca d’Italia; la conoscenza dei possibili acquirenti bancari e non bancari e dei loro tanti vizi è limitata o influenzata da una filosofia dirigistica del sistema bancario, sempre opinabile, sulla quale il vertice è già stato ingiustamente implicato pur rientrando nei suoi poteri farlo, appunto quelli che suggerisco di riformare. Per aggirare queste due ragioni di fondo nella sistemazione delle banche in crisi è stata trovata una soluzione che più pasticciata non poteva essere e che rinvia al futuro gli oneri attuali, appesantisce le gestioni bancarie, non risolve le prospettive negative sulle stesse e accresce il peso delle burocrazie. La sistemazione del problema dei danni subiti dai risparmiatori in obbligazioni subordinate ha le stesse caratteristiche che hanno portato all’elefantiasi burocratica del Paese e alla politicizzazione di ogni intervento pubblico: giudizi legati a valutazioni di «professionisti indipendenti» e non a regolamenti oggettivi, scartoffie e lungaggini di ogni tipo, dalla fase organizzativa del collegio giudicante all’espletamento delle pratiche; tutte in nome della serietà delle scelte che verranno effettuate ma che diffondono il virus dell’antipolitica. Se si voleva stanziare una cifra inferiore all’importo coinvolto si poteva semplicemente offrire una quota-parte a chiusura del contenzioso oppure, ancora meglio, destinare a copertura dell’intero importo una percentuale dei ristorni che Banca d’Italia fa al Tesoro sui guadagni in eccesso dei titoli di Stato, chiudendo dignitosamente la vicenda. (riproduzione riservata)