Pagina a cura di Luigi Dell’Olio 

 

I problemi che si trovano ad affrontare gli obbligazionisti dei quattro istituti oggetto di salvataggio (CariFerrara, Banca Marche, Etruria e CariChieti) potrebbero essere solo un antipasto di quello che avverrà in futuro. Che probabilmente non è nemmeno tanto lontano a considerare due aspetti: da una parte la situazione precaria che caratterizza i conti di molti istituti di credito italiani (soprattutto quelli di minori dimensioni), a fronte di un’economia che stenta a ripartire in maniera decisa; dall’altra, l’entrata in vigore, dal 1° gennaio prossimo, del cosiddetto bail-in, nuovo sistema di soluzione delle crisi bancarie che sposta l’onere del salvataggio dallo Stato ai portatori di interesse relativamente alla società coinvolta.

Uno strumento che merita di essere conosciuto a fondo per evitare di farvi fronte solo a danno compiuto e irreparabile.

L’avvio del nuovo anno coinciderà con l’adozione della direttiva europea Brrd (Banking recovery and resolution directive) che definisce la gerarchia dei soggetti che saranno coinvolti nel salvataggio di una banca. Se un istituto finirà in dissesto si potrà tentare il salvataggio chiamando in causa in primo luogo gli azionisti, quindi i detentori di obbligazioni ibride (così identificate perché a metà strada tra il debito puro e il capitale di rischio, cioè le azioni), poi le subordinate (il cui rimborso, nel caso di liquidazione o fallimento dell’emittente avviene successivamente a quello dei creditori ordinari) e infine le senior (le emissioni tradizionali). In ultima battuta, i correntisti, ma solo per la liquidità superiore ai 100 mila euro detenuta sul conto corrente. In particolare, agli azionisti e ai creditori sarà chiesto un contributo pari all’8% del passivo della banca in crisi.

Fare dei calcoli a priori delle possibili perdite è, comunque, impossibile. Ciascuna situazione andrà valutata dalle autorità di risoluzione delle crisi bancarie, che opterà per la soluzione più indolore. Nei casi più estremi si potrà arrivare a un azzeramento dei titoli, in quelli meno gravi a un taglio del valore o alla conversione delle obbligazioni in azioni della nuova banca che si andrà a costituire dopo il salvataggio.

Cosa fare. Per chi detiene oggi azioni o bond bancari, la prima raccomandazione è dunque di approfondire la conoscenza dello strumento (che magari è stato acquistato senza approfondirne le caratteristiche), per valutare se conviene mantenerlo o meno in portafoglio.

Premesso che ciascun investimento è per definizione esposto a rischi, bisogna insomma capire se si è disposti a correre il rischio. Ricordando che la promessa di un rendimento maggiore rispetto ai prodotti tradizionali (ad esempio i titoli di Stato) in genere porta con sé maggiori rischi. Per la semplice ragione che il rendimento maggiorato è la strada obbligata per convincere gli investitori a scegliere un prodotto che offre minori garanzie di altri.

I criteri di solidità. Valutare la solidità di una banca non è esercizio semplice, dato che alcuni criteri di contabilizzazione (ad esempio le svalutazioni dei crediti divenuti) si prestano a valutazioni inevitabilmente discrezionali. Tuttavia esistono dei parametri oggettivi che possono aiutare.

Il principale indicatore di solidità di una banca è il Core Equity Tier 1 (o anche Cet1), vale a dire il rapporto fra gli investimenti effettuati, ponderati per il loro rischio, e il capitale proprio della banca. Quanto più alto è questo valore, tanto più la banca è solida.

La soglia minima regolamentare prevista dalla Banca centrale europea per le banche italiane è del 10,50%, livello che consente di fronteggiare perdite inattese come nuove, possibili crisi dei mercati. La patrimonializzazione Common equity tier 1 (Cet1) per le banche Ue è, mediamente, a quota 12,8% (in progresso rispetto al 12,1% a fine 2014), mentre quella del nostro Paese si attesta al momento all’11,5%.

Un’indicazione positiva sulla solidità dei conti arriva poi dal superamento degli stress test, attuati dalle Banche centrali.

Si tratta di simulazioni che hanno l’obiettivo di misurare la tenuta patrimoniale delle banche in caso di nuove tensioni sui mercati. A fine 2013 vi è stata una tornata di stress test sui 128 maggiori istituti dell’area euro, realizzata dalla Bce e dall’Eba , che ha portato alla bocciatura dei conti relativi a 15 banche, di cui due italiane (Monte dei Paschi di Siena e Carige), con promozione per le altre 13 (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi Banca, Mediobanca, Barclays Italia, Iccrea, Banco popolare, Banca popolare di Milano, Bper, Credem, Popolare di Sondrio, Veneto Banca e Popolare di Vicenza).

Il 2016 vedrà una nuova tornata di stress test nell’Eurozona. Saranno coinvolte le 39 principali banche europee, tra cui cinque italiane: UniCredit, Intesa Sanpaolo, Banca Mps, Banco Popolare e Ubi Banca.

Intanto il monitoraggio da parte della Bce si è fatto continuativo con il sistema noto come Srep (Supervisory review and evaluation process), che fornisce annualmente indicazioni in merito all’adeguatezza patrimoniale degli istituti di credito attivi nell’Eurozona. L’ultimo monitoraggio ha riguardato 123 banche, tra cui le italiane Banco Popolare, Bper, Bpm, Carige, Iccrea, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Mps, Popolare di Sondrio, Popolare di Vicenza, UniCredit, Ubi e Veneto Banca. In queste settimane stanno emergendo le criticità rilevate dai controllori europei, con le banche chiamate a comunicare eventuali deficit sui numeri.

Un altro indicatore per comprendere la solvibilità di tutte le aziende (comprese, quindi, quelle del credito) è il current ratio.

Il valore indica la capacità di far fronte ai propri impegni a breve mediante le risorse liquide o rapidamente realizzabili, dato che costituito dal rapporto tra le attività correnti e le passività correnti. Concretamente si tratta di mettere a l’attivo corrente (o circolante) con il passivo corrente, in modo da poter valutare l’equilibrio tra i due aggregati contabili.

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