La repressione finanziaria sui 4 mila miliardi di euro detenuti dagli italiani si fa più aspra, perché lo Stato è a caccia di risorse per ridurre il debito. Ecco i numeri della stretta e i consigli per difendersi

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Il risparmio delle famiglie italiane è salito a 4 mila miliardi di euro e considerando anche la ricchezza immobiliare si arriva a 8 mila miliardi. Nel frattempo il debito pubblico ha superato i 2.100 miliardi. Nonostante le difficoltà dell’economia gli italiani tengono duro e riducono i consumi per mettere da parte risorse. 
E lo fanno a scopi precauzionali investendole o tenendole liquide su strumenti di parcheggio. I dati Abi lo segnalano in modo chiaro. Dalla fine del 2007, prima dell’inizio della crisi, a oggi la raccolta delle banche presso la clientela italiana è passata da 1.513 a 1.698 miliardi di euro, segnando un aumento di 185 miliardi. E, quale che sia la destinazione del risparmio, quel che è certo è che in Italia si sta assistendo a una sorta di repressione finanziaria da parte dello Stato nei confronti del tesoretto delle famiglie con l’obiettivo di reperire risorse per tenere sotto controllo il maxi-debito pubblico. Prova ne è l’aumento delle imposte sul risparmio introdotto negli ultimi anni. Il tutto senza dimenticare le imposte sulla casa e quel possibile aumento delle tasse di successione tanto temuto dal mercato, visto che l’Italia è rimasta un paradiso in quanto a tassazione delle eredità rispetto alla maggior parte dei Paesi stranieri.

 

L’inasprimento fiscale infatti non si ferma. A luglio il governo Renzi ha aumentato la tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26% (esclusi i titoli di Stato). 
E anche nella bozza della legge di Stabilità per il 2015 in discussione in Parlamento è previsto l’aumento della tassazione dei rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% a un massimo del 17-20%, oltre alla riduzione dei benefici fiscali per le polizze Vita, all’aumento del prelievo sui rendimenti del Tfr in azienda dall’11% al 15-17% e all’inasprimento dal 20 al 26% dell’aliquota sulle rendite delle casse di previdenza professionale. Proprio gli strumenti di previdenza erano finora rimasti gli unici a godere di un trattamento fiscale di favore anche per rendere meno traumatico il passaggio dal sistema pensionistico retributivo a quello contributivo. Ma adesso il legislatore punta a toccare anche questi prodotti. Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni (a firma di Paolo Balardinelli) dal titolo «Il risparmio in Italia, sempre più penalizzato» denuncia, con analisi di confronto internazionale, proprio questa «forma di repressione finanziaria, senza paragoni validi all’estero, espressione chiara di uno Stato concentrato a tutelare più il proprio debito che il risparmio dei cittadini. Il governo sfrutta il proprio potere coercitivo per attirare a sé risorse che in una competizione alla pari non riceverebbe». 
Tutto ciò peraltro è in contrasto con la Costituzione. «Tutelare sotto l’ombrello dell’articolo 47 della Costituzione il risparmio, inteso come investimento, significa anche evitare di (tar)tassarlo senza criterio con imposte patrimoniali», spiega l’Istituto Bruno Leoni. «Tutelare e incoraggiare il risparmio in tutte le sue forme da un lato dovrebbe consistere nel salvaguardare la stabilità del valore della moneta, strumento nel quale il risparmio si traduce, dall’altro dovrebbe manifestarsi in un regime fiscale che vada a premiare abitudini virtuose da questo punto di vista o che quantomeno non le ostacoli». Al contrario, dopo la crisi dei debiti pubblici, scoppiata nel 2011, in Italia «il legislatore è stato particolarmente attivo nell’andare a modificare la disciplina della tassazione dei redditi di capitale», spiega lo studio. Ciò è stato realizzato sia con un aumento delle aliquote esistenti sia con l’introduzione di nuove forme di prelievo. Nell’agosto del 2011 il governo Berlusconi aveva aumentato l’aliquota di tassazione dei redditi di natura finanziaria dal 12,5 al 20%, con decorrenza dal 2012, a eccezione dei titoli di Stato (italiani ed esteri) e dei buoni fruttiferi postali, che restano tassati al 12,5%. «Da quel momento ha cominciato a delinearsi la non neutralità del legislatore, il quale favorendo i titoli del debito pubblico dimostra non tanto di incoraggiare e tutelare il risparmio in tutte le sue forme, come vorrebbe l’articolo 47 della Carta Costituzionale, quanto piuttosto di incoraggiarlo e tutelarlo solo in alcune forme: quelle che, parrebbe, fanno più comodo allo Stato stesso», prosegue l’Istituto Bruno Leoni.

Poi è arrivato il governo Monti che ha introdotto da inizio 2012 l’imposta di bollo dello 0,1% sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari. «Di fatto si è trattato di una vera e propria, seppur mini, patrimoniale sulle persone fisiche, dal momento che esse vengono colpite in misura proporzionale al volume di attività finanziarie (patrimonio) detenute presso il sistema finanziario italiano», prosegue l’analisi. Tra l’altro nel 2013 l’aliquota di questa imposta è stata alzata allo 0,15% e da quest’anno è stata ulteriormente aumentata allo 0,2% senza tetto massimo per le persone fisiche. Contemporaneamente è stato anche colpito il risparmio detenuto all’estero con l’introduzione solo per le persone fisiche di un’imposta sulle attività finanziarie detenute all’estero (Ivafe). Nel dicembre 2012 è stata poi varata la tanto criticata Tobin Tax, in vigore da marzo 2013, l’imposta sulle transazioni finanziarie che colpisce titoli azionari italiani. «Secondo alcune analisi, sembra che dall’introduzione di questa imposta il valore degli scambi medi giornalieri dei titoli soggetti alla nuova tassazione sia calato del 30%, mentre nel resto d’Europa è aumentato del 4,5%», sottolinea l’Istituto Bruno Leoni. «Il gettito effettivo è ora stimato nel 30% di quello che era stato previsto nel momento d’introduzione dell’imposta».

Infine è arrivato il governo Renzi, «che ha aggravato la non neutralità dello Stato rispetto ad alcune forme di investimento», scrive l’Istituto. Questo perché l’aliquota fiscale sulle rendite finanziarie, alzata al 20% nel 2011, è stata aumentata ancora al 26% a partire dal primo luglio scorso, mentre quella sui titoli di Stato e sui buoni fruttiferi è rimasta al 12,5%.

 

«Aumentando la forbice della tassazione tra titoli pubblici e altri titoli, è aumentata la repressione finanziaria già presente», sottolinea lo studio. «In sostanza, si tenta di alterare le decisioni del contribuente in modo da agevolare l’afflusso di risorse verso l’Erario invece che verso il sistema imprenditoriale e finanziario». E ora si attende la versione definitiva della Legge di Stabilità 2015, che, come detto, mette nel mirino gli strumenti di previdenza. «Se tale legge non dovesse essere rivista, proseguirà l’inasprimento della tassazione sul risparmio», denuncia l’analisi. «Sarà ancora più evidente, qualora ce ne fosse bisogno, il fatto che l’unico principio a guidare questi provvedimenti è la volontà di andare a recuperare risorse dove ancora ce ne sono, senza però compromettere l’afflusso di denaro verso il debito pubblico. Le nuove misure andrebbero a penalizzare gli investimenti di lungo periodo, ossia proprio quelli che più o meno tutti gli operatori di settore si raccomandano di tutelare».

Insomma, alla fine il peso del fisco sul risparmio può decurtare ben più del 30% dell’investimento effettuato (si veda tabella in pagina). L’Istituto Bruno Leoni cita il caso di un investitore che all’inizio di quest’anno avesse deciso di acquistare un pacchetto di azioni del valore di 10 mila euro di una società che durante il 2014 gli abbia dato un dividendo del 5% (500 euro). «A fronte di un dividendo percepito di 500 euro il primo anno il risparmiatore sarà costretto a versare 160 euro di imposte, con un’aliquota reale del 32%», calcola l’Istituto. «Negli anni successivi, assumendo che egli percepisca lo stesso dividendo, non dovendo più pagare la Tobin Tax sarà comunque chiamato a pagare 150 euro di imposte, con un’aliquota reale del 30%».

 

Lo studio allarga poi lo sguardo all’Europa partendo dal principio di libera circolazione dei capitali, che appare violato. «Siamo ancora lontani da una situazione di concorrenza fiscale. Non esiste cioè la possibilità, almeno per le persone fisiche, di scegliere di investire i propri risparmi in Paesi diversi da quello di residenza al fine di ottenere un trattamento fiscale meno oneroso. L’ostacolo principale a questa possibilità è rappresentato dall’Ivafe, che di fatto va a equiparare il trattamento fiscale dei risparmi investiti all’estero con quelli investiti in Italia». Eppure nei principali Paesi europei il risparmio sembra essere meglio tutelato rispetto a quanto accade in Italia (si veda tabella in pagina). «L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti d’Europa per quanto riguarda le rendite finanziarie per via degli incrementi di tassazione degli ultimi anni», prosegue lo studio. «All’estero le aliquote generalmente cambiano a seconda del tipo di investimento, cercando di favorire quelli di lungo periodo, e a seconda della quantità di risparmi investiti, per promuovere la progressività del sistema. In Italia l’unica distinzione che viene fatta, sconosciuta negli altri Paesi presi in esame, è quella di favorire chi investe in titoli di Stato». Con il rischio di andare incontro a delusioni sul fronte del gettito, come è successo nel citato caso della Tobin Tax. «Alla luce di quanto sin qui evidenziato è lecito domandarsi se il nostro sistema tributario sia efficace», avverte l’Istituto Bruno Leoni. «Il confronto con altri Paesi porta a propendere per una risposta negativa. Inasprire ulteriormente le aliquote potrebbe disincentivare gli investitori ad adottare quel comportamento virtuoso che in passato li ha contraddistinti. Il risultato sarà, ancora una volta, un gettito fiscale minore del previsto».

 

Il regime di tassazione delle rendite finanziarie presenta poi alcuni rilevanti elementi di discriminazione tra prodotti di investimento, che andrebbero eliminati. «In primo luogo c’è l’impossibilità di portare in deduzione oltre il quarto anno le minusvalenze che vengono accumulate, mentre le plusvalenze vengono comunque sempre tassate, senza limiti temporali. Questo meccanismo tra l’altro discrimina, nell’ambito del risparmio gestito, le gestioni individuali di portafoglio rispetto ai fondi pensione, ove questo limite temporale nell’utilizzo dei risultati negativi non opera», spiega l’avvocato Roberto Lenzi, senior partner dello studio legale Lenzi e Associati di Milano. La seconda questione riguarda «il fatto di tassare il rendimento maturato delle gestioni individuali di portafoglio con aliquota del 26% e dei fondi pensione con l’11,5% nel 2014». Il terzo nodo da sciogliere riguarda «l’impossibilità nel regime amministrato e in quello della dichiarazione di poter compensare tra loro redditi di natura diversa, di capitale e altri, così come è invece consentito, ad esempio, nel regime gestito», prosegue Lenzi. Senza dimenticare che «le misure previste nella legge di Stabilità 2015 sui rendimenti dei fondi pensione e sulle rendite della casse di previdenza professionale seguono la riduzione a 230 euro del limite di detraibilità dei premi pagati in relazione alle polizze Vita e infortuni, il che rappresenta un vero e proprio taglio retroattivo in violazione al principio di affidamento dello Statuto del contribuente», prosegue Lenzi. «Ebbene, da una parte si sollecitano i contribuenti a ricorrere alla previdenza integrativa nelle sue varie forme per rendere meno traumatico il passaggio al sistema contributivo e per fare fronte a erogazioni pensionistiche sempre più in crisi, dall’altra parte si varano provvedimento del tutto contrastanti con questa finalità».

E per il risparmiatore, già alle prese con tassi ai minimi storici, non è facile difendersi, a patto di non prendere maggiori rischi. «Infatti l’effetto combinato dell’imposta di bollo e della tassazione delle rendite finanziarie porta a una tassazione complessiva inversamente proporzionale al rendimento», spiega Giuseppe Marsi, amministratore delegato di Schroders Italy sim. Ad esempio, in una recente analisi Schroders calcolava che per un titolo di Stato tassato al 12,5% e che rende il 2% le tasse pesano il 22,7%, mentre il rendimento sale al 10% si paga il 14,7%. «Ciò può spingere gli investitori, soprattutto quelli più prudenti, a cambiare comportamento, rinunciando a investire oppure alzando l’asticella del rischio», avverte Marsi. Che per rimediare a questa situazione propone l’abolizione dell’imposta di bollo e una differenziazione delle aliquote di imposta rendendo queste ultime inversamente proporzionali alla durata dell’investimento. Si tratta di una proposta che sta molto a cuore ad Assogestioni, che da tempo chiede al governo di introdurre anche in Italia i cosiddetti Pir, i piani di risparmio a lungo termine agevolati fiscalmente, previsti in altri Paesi europei, tra cui la Francia. Esisteva un progetto del genere dell’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti, ma da allora i Pir sono finiti nel cassetto e lì sono rimasti. (riproduzione riservata)