di Andrea Di Biase, Manuel Follis e Luciano Mondellini

L’allarme lo ha lanciato mercoledì 4 dicembre l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, parlando nel corso della presentazione del volume La sfida internazionale della Comit di Carlo Brambilla. Se nei prossimi anni, ha ammonito l’ex presidente della Commissione Europea, la politica, il mondo del credito e dell’impresa non saranno in grado di fare sistema per favorire un aumento delle dimensioni di quei pochi gruppi industriali e finanziari rimasti in Italia, è concreto il rischio che il Paese possa dover rinunciare anche alle ultime multinazionali ancora in grado di reggere la competizione internazionale. «Solo pochi anni fa», ha sottolineato Prodi, «avevamo nove delle prime cinquanta imprese europee, oggi ne abbiamo due».

E il discorso dell’ex premier, che negli anni 80 e 90 è stato presidente dell’Iri e ha gestito in prima persona le privatizzazioni, non vale solo per la grande industria, che negli ultimi anni ha perso pezzi importanti qualiEdison, Parmalat, Avio e prestigiosi brand lusso come Bulgari, Loro Piana e Valentino, ma anche per le banche e le assicurazioni. Finita, grazie anche alla determinazione dell’attuale dirigenza di Mediobanca, l’epoca dei patti di sindacato e delle partecipazioni incrociate, non si vede però all’orizzonte un modello alternativo capace di fornire capitali ai grandi gruppi del Paese e al tempo stesso di preservarne il controllo in mani italiane.

Il vecchio sistema, organizzato nel secondo dopoguerra dalla Mediobanca di Enrico Cuccia per salvaguardare il capitalismo privato italiano dalle ingerenze dello Stato padrone e consentire alle grandi famiglie di comandare senza grandi apporti di capitale, aveva permesso, anche a costo di palesi distorsioni delle regole del mercato, di mantenere in Italia il controllo di importanti gruppi industriali e finanziari, ma non era stato capace di favorire la crescita dimensionale e l’internaziolizzazione.

Celebrata la fine dei patti, ora però, con una borsa senza veri investitori istituzionali e con lo stesso numero di società quotate che aveva nell’età giolittiana, con le grandi banche spinte dalle regole di Basilea 3 a disfarsi delle partecipazioni detenute in altri gruppi industriali e finanziari, e con le fondazioni con molte meno risorse da investire che in passato, il rischio che si corre è quello di perdere altri importanti pezzi dell’economia nazionale.

Le Generali, nei confronti delle quali è stato recentemente sferrato un attacco senza precedenti dall’agenzia di rating Standard & Poor’s, rappresentano l’esempio più calzante. Finora la coalizione informale composta da Mediobanca, che detiene il 13,2% del Leone, e il gruppo di azionisti (Del Vecchio, De Agostini,Caltagirone, Benetton e Fondazione Crt) che assieme detengono una partecipazione quasi analoga a quella della banca d’affari (cui si aggiunge il 4% custodito dal Fondo strategico italiano), ha garantito al managament guidato da Mario Greco la necessaria stabilità negli assetti proprietari per portare avanti con successo il piano di rilancio della compagnia. Ma nei prossimi mesi questo scenario è destinato a cambiare. Entro il 2016, infatti, l’istituto di Piazzetta Cuccia dovrà infatti cedere un pacchetto del 3% del Leone e, anche se come sembra la cessione dovrebbe avvenire tra tre anni, per beneficiare a pieno dei risultati che Greco ha intenzione di raggiungere, prima o poi un tema di assetti proprietari dovrà porsi. Anche perché pure lo stesso Fondo Strategico è destinato a liberarsi entro il 2015 del proprio 4%. I tempi non sembrano essere ancora maturi, ma solo poche settimane fa Leonardo Del Vecchio, non ha escluso a priori la possibilità di rilevare almeno un parte delle azioni che saranno messe in vendita. Ma il patron della Luxottica potrebbe non essere l’unico pretendente in grado di assicurare l’italianità del Leone.

Una società che corrisponde all’identikit di un perfeetto compratore è certamenteExor. Nei giorni scorsi un report di Equita sim ha indicato come la holding di casa Agnelli disponga di una potenza di fuoco superiore ai 3 miliardi tanto da suggerire un investimento nelle minority di Ferrari, scuderia controllata da Fiat Spa al 90% e da Piero Ferrari per il restante 10%. Soprattutto il report ha messo in evidenza come il mercato si stia attendendo un investimento da parte della holding torinese dopo che la cessione del 15% in Sgs avvenuta quest’estate ha fruttato oltre 2 miliardi. Il mercato, in realtà, si aspetta un parziale investimento della holding come sostegno nella conquista di Fiat all’intero capitale di Chrysler e, quindi, la relativa immobilità di Exor in questo momento è legata agli sviluppi della battaglia che Sergio Marchionne sta conducendo negli Stati Uniti. E non a caso, interpellata da MF-Milano Finanza sulla questione, Exor ha spiegato chiaramente di non essere interessata a un investimento in Generali e di voler concentrare tutta l’attenzione sull’operazione Chrysler, considerata la priorità massima in casa Agnelli.

 

Ciò non toglie tuttavia che la holding torinese resta un identikit ideale per leGenerali. Tanto che secondo quanto hanno raccontato alcuni componenti dell’establishment economico-finanziario del Nord Italia a MF-Milano Finanza nei giorni scorsi, nessuno si sorprenderebbe se, una volta conclusa la vicenda Chrysler,Exor investisse in Generali facendo tornare casa Agnelli nell’azionariato del Leone di Trieste. Si tratterebbe, qualora si realizzasse, di un’operazione di sistema che coinvolgendo pezzi portanti del sistema Italia avrebbe anche bisogno di una sorta di avallo istituzionale-politico, ma che secondo molti osservatori avrebbe un notevole senso strategico.

In primo luogo in quanto blinderebbe l’italianità del Leone. Fiat (in particolare nella persona di John Elkann) e Mediobanca hanno ritrovato sintonia di azione sulla questione Rcs e questo consentirebbe di avere una certa solidità di intenti tra i due soci principali. Non solo ma va inoltre considerato che mai come ora sembra esserci concordia anche a livello manageriale sull’asse Torino-Trieste. Presidente del Leone è, infatti, Gabriele Galateri di Genola, storico manager di casa Agnelli che più volte ha occupato i posti di comando sia di Fiat che di Ifil, l’allora holding di casa Agnelli ora confluita in Exor. Mentre sulla poltrona di amministratore delegato siede Mario Greco, manager assicurativo di lungo corso che può vantare una lontana parentela (il padre è cugino della moglie) con Franzo Grande Stevens, storico avvocato di casa Agnelli.

In seconda istanza, biosgna considerare che un investimento in Generaliconsentirebbe a Exor di restare ben piantata al centro del sistema Italia anche una volta che sarà completata la fusione Fiat-Chrysler e con questa la quotazione principale dei titoli del nuovo gruppo sul listino newyorchese (riproduzione riservata)