di Stefania Peveraro

 

La stretta fiscale su banche e assicurazioni, decisa in Consiglio dei ministri il 27 novembre e inserita nel decreto legge di abolizione della seconda rata dell’Imu, tocca anche le sgr. E i gestori hanno un motivo in più per trasferire l’attività all’estero. L’art. 2 del decreto, infatti, parla di «enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87», tra i quali figurano chiaramente anche le società di gestione del risparmio. La norma colpisce anche le filiali italiane di società di asset management estere che si configurano quindi come branch, ma che pagano comunque la loro quota di tasse in Italia. Anche tutti gli operatori del risparmio gestito, i gestori di fondi immobiliari e di quelli di private equity e di venture capital, quindi, dovranno pagare l’acconto Ires del 130% sui redditi 2013, che ingloba l’aumento dell’8,5% dell’Ires, che porta l’aliquota dal 27,5% al 36%. Il tutto mentre le banche si potranno comunque consolare con la contropartita offerta sempre dalla legge di Stabilità, che consiste nel fatto di poter dedurre dall’imponibile Ires la quota di crediti ormai svalutati su un arco temporale molto più breve (5 anni) del precedente (18 anni). Per il 2014, l’acconto sarà invece del 101,5%. Si tratta ovviamente di una norma che è stata male accolta dagli interessati, che vedranno ridursi i margini di redditività. I sottoscrittori delle quote dei fondi, invece, per il momento non avranno di che preoccuparsi, perché la tassazione in capo alle sgr non ha nulla a che fare con la tassazione dei fondi. Ma certo è possibile che alcune società pensino a un ritocco al rialzo delle commissioni per recuperare redditività e in quel caso l’effetto indiretto su risparmiatori e investitori ci sarebbe. In realtà l’alternativa più probabile è una migrazione sempre più massiccia di questo tipo di attività all’estero. Peraltro la tendenza è già quella. Basta guardare i dati forniti da Assogestioni in relazione al patrimonio in gestione alla fine del terzo trimestre dell’anno: è eclatante il fatto che su 116,5 miliardi in gestione al gruppoIntesa Sanpaolo solo 60 fanno capo a sgr italiane e su 60 miliardi in gestione a Pioneer (Unicredit) solo 9 fanno capo alla sgr italiana.

Anche il private equity è in rivolta. «Aifi ritiene il provvedimento eccessivamente gravoso, aggiungendosi a un anno di congiuntura particolarmente difficile per il comparto finanziario, riscontrato anche nella raccolta di settore», ha commentato l’Associazione del private equity e del venture capital, sottolineando che «da tempo è richiamato il ruolo degli operatori di private equity e venture capital a sostegno dell’economia reale e del sistema imprenditoriale italiano senza che questo ruolo sia stato particolarmente incentivato». Questa ulteriore penalizzazione si aggiunge agli oneri regolamentari e agli adempimenti amministrativi a carico, soprattutto, dei gestori medio-piccoli. «Non possiamo che rilevare che in questo modo non viene certo incentivato, né supportato un contributo alla crescita attraverso l’investimento in capitale di rischio», ha dichiarato il presidente di Aifi, Innocenzo Cipolletta. Non solo. Aifi ha richiamato l’attenzione sul fatto che «è in corso un processo di recepimento della Direttiva Ue sui gestori dei fondi alternativi che riguarda anche il settore del p.e. e che lo esporrà alla competizione a livello internazionale, rischiando di scoraggiare il mantenimento delle strutture in Italia». (riproduzione riservata)