di Manuel Follis

Il tema della chiacchierata, ovvero la fine vera o presunta dei patti di sindacato a Piazza Affari, per Guido Rossi non è un argomento come altri. Ex presidente della Consob, ma anche di Montedison in piena Tangentopoli, di Telecom Italia e della Figc (dopo lo scandalo Calciopoli), giurista e tra i principali avvocati di diritto societario, padre della legge italiana antitrust, il professor Rossi ha combattuto una lunga battaglia, fin dagli anni 80, contro le società eterodirette attraverso i patti di sindacato.

Non è un caso che, appena sente parlare della fine dei patti, gli scappa un sorriso. «Guardi che sono stato a lungo l’unico contro i patti di sindacato, una voce nel deserto», ricorda Rossi. «Quando facevo parte del cda delleGenerali mi sono dimesso quando ho scoperto che le decisioni non venivano prese in consiglio ma inMediobanca».

Domanda. Quindi è proprio così, anche secondo lei i patti sono arrivati al capolinea?

Risposta. Sì, anche ultimamente sta terminando il capitalismo di relazione, che era basato soprattutto sui patti di sindacato, i quali facevano sì che al comando delle imprese si trovasse tutta una serie di società pubbliche e private, che in realtà erano le stesse che gestivano l’economia del Paese.

D.Lei è stato presidente Consob a inizio degli anni 80; già allora aveva messo nel mirino questo tipo di accordi?

R. Sì, la prima cosa che ho fatto come presidente della Consob, era il marzo 1981, è stato costringere le società a dichiarare l’esistenza dei patti. Allora si trattava di patti occulti; questo tipo di accordi venivano sempre siglati con una clausola finale che li definiva patti d’onore, quasi ci fosse una sanzione di vergogna per chi non li avesse sottoscritti.

D.Qualcuno ha sostenuto che si trattava di una strategia per proteggere le imprese italiane dai gruppi stranieri, condivide?

R. Non molto, la verità è che ci si occupava ben poco degli stranieri. I patti di sindacato sono nati perché ruotavano intorno a un sistema che aveva le sue basi nel capitalismo di Stato e nelle banche di interesse nazionale, che si univano al tradizionale capitalismo familiare, il quale per sua natura era difficilmente aggredibile perché estremamente chiuso. Piazza Affari dal canto suo è sempre stata una borsa minore, non all’altezza del Paese.

D.In che senso?

R. Fornisco solo un dato: quando sono diventato presidente Consob era il 1980 e le aziende quotate erano, più o meno, le stesse che ci sono oggi. Mi sembra significativo: non si voleva abbandonare il modello dell’Iri, il modello del capitalismo di Stato da una parte e del capitalismo familiare dall’altra.

D.Oggi però le cose stanno cambiando, visto che i patti di sindacato potrebbero presto scomparire. Che cosa è successo?

R. Questo modello non ha più ragione di esistere. È cambiata in generale la struttura del capitalismo, si sono allargati i confini, che fino agli anni 90 erano ancora legati alle nazioni, le stesse legislazioni erano basate sui confini. La globalizzazione ha fatto cambiare tutto. Quello era un sistema balordo che coinvolgeva società che poi si trovavano insieme senza esserne convinte. Era un capitalismo con poche novità e dove gli azionisti erano sempre gli stessi. Oggi invece ci sono new entry incredibili.

D.Dai fondi sovrani ai gruppi cinesi, non dobbiamo preoccuparci?

R. Va detto che l’unico soggetto davvero trasparente è il fondo sovrano norvegese, per il resto parlare di sistema finanziario globalizzato non implica che questo sia trasparente. Non si sa più bene chi fa le strategie.

D.Con la globalizzazione però aziende fondamentali per il Paese rischiano di passare sotto il controllo di gruppi stranieri.

R. Bisogna capire che cosa si intende per fondamentali. Quali sarebbero le aziende fondamentali?

D.Telecom, per esempio. Si è molto discusso dell’operazione che porterebbe Telefonica al controllo di Telco.

R. Ah, Telecom… sa perché ho lasciato la presidenza? Fingono di dimenticarlo tutti: perché per me era impossibile che si potesse privatizzare senza che ci fosse una vera governance pubblica. La privatizzarono e fu creato un nocciolino duro di azionisti. Allora scrissi una lettera al ministro del Tesoro dicendo che quella non era una public company.

D.Torniamo dunque a parlare di patti di sindacato; sono stati dannosi anche per Telecom?

R. Il controllo della società era affidato a questo nocciolino duro in cui nessuno si occupava di tlc. Un errore grossolano. Si fingeva di voler fare il mercato aperto e invece di mercato nessuno si occupava davvero. Io ero l’unico contro i patti di sindacato, una voce nel deserto. Gli altri erano tutti a favore, eccetto la Corte di Cassazione, ma anch’essa poi cambiò idea, fino a quando con la legge Draghi tali patti sono diventati legittimi. Non le dico poi che cosa significava per me spiegare i patti agli stranieri.

D.Cioè, può fare un esempio?

R. (Ride) Ai miei colleghi inglesi o tedeschi non riuscivo a far capire questi patti. Mi dicevano: «Ma, Guido, vuoi che due fondi non si mettano d’accordo per il voto in assemblea?» Avevano ragione, il problema era che qui i patti di sindacato erano vere e proprie strutture di controllo. Faccio un altro esempio: quando facevo parte del cda delleGenerali mi sono dimesso perché ho scoperto che le decisioni non venivano prese in consiglio ma in Mediobanca. Avevano deciso in Piazzetta Cuccia che il presidente Antoine Bernheim non fosse confermato e così mi dimisi.

D.Torniamo alla difesa delle aziende nazionali, è un discorso che ha senso?

R. Ormai il gioco non lo conduciamo più noi. Ci inventiamo leggi ad hoc come quella sull’opa che in fondo era fatta per ostacolare Telefonica. Sono cose da secolo scorso, ma proprio da inizi ‘900. Non siamo più noi i protagonisti. Se l’Europa resiste, il sistema, anche quello bancario, lo governa Mario Draghi, non è più roba che attiene alla cucina italiana. La politica economica del Paese è eterodiretta. L’austerity non l’abbiamo certo voluta noi italiani, anzi l’abbiamo subita.

D.Credo sia proprio questo che preoccupa, il non essere padroni della politica economica, implica la possibilità che i gioielli italiani passino in mani straniere…

R. Ma quali tesori? Telecom? Ma è una società decotta. Tenga conto di una cosa che nessuno dice: quando ho privatizzato Telecom, era la più importante società di tlc in Europa. Con il sistema dei nocciolini duri l’hanno distrutta. La cosa importante è vedere che cosa si farà della rete.

D. Quindi per finanziare la crescita ben vengano i capitali stranieri?

R. Assolutamente sì, se qualcuno ha capitali da investire in Italia ben venga, di chiunque si tratti. Che cos’è? Vogliamo morire poveri ma italiani? Continuiamo a ragionare in un modo che non capisco più. Appena varcata la frontiera di Chiasso, tutta Europa ragiona in modo diverso dal nostro. (riproduzione riservata)