DI GABRIELE CAPOLINO

Così come Shylock dal «Mercante di Venezia », anche i politici con l’introduzione della Tobin Tax vogliono una libbra di carne dal mercato finanziario italiano. Non importa se arriverà o no, ma in tempi di campagna elettorale il solo annuncio basta e avanza per presentarsi agli elettori dicendo: vedete, abbiamo fatto piangere anche la speculazione. Il mercato fi nanziario italiano, anziché rifiutare in toto, attraverso un’azione forte di tutti i suoi attori (Abi, Assosim, Assogestioni, Assoreti, Ania, etc.), il sacrificio della libbra di carne, ha preferito negoziare separatamente con politici e governanti: a me chiedi mezza libbra, a lui chiedigliene pure due che tanto ce le ha. Errore gravissimo. Rimediabile ancora, purché in questi pochi giorni che separano dall’approvazione della legge di stabilità si reiteri un concetto semplice: la Tobin all’italiana va stralciata e rinviata a quando l’Unione europea presenterà un proprio articolato. Di motivi validi ce ne sono a bizzeffe. A che serve una nuova imposta? Ad avere gettito, oppure in alcuni casi, a scoraggiare alcuni comportamenti. La Tobin all’italiana non realizza nessuno di questi due scopi. Primo, perché è troppo cara, sia che venga fissata allo 0,05% su tutte le transazioni, sia che venga limitata allo 0,20% sulle sole compravendite azionarie e in misura fi ssa su altri strumenti. Il risultato sarà che le compravendite di azioni e/o derivati interessati non si faranno più su questi titoli, e lo stato non avrà quel gettito (un miliardo di euro) che presumeva. Ma le compravendite si faranno lo stesso, su altri titoli non italiani oppure sugli stessi titoli italiani ma in un’altra forma. Quale? La finanza è globale: tassarla in modo diverso dagli altri paesi europei è come pretendere di issarsi in cima al Monte Bianco e respingere il vento con le mani. Basta vedere che cosa è successo in Francia, dove pure la tassa è stata scritta in modo più generoso di quello italiota: le transazioni sui titoli francesi sono scese del 25%, ma i grandi trader internazionali hanno continuato a negoziare come prima: semplicemente hanno abbandonato la compravendita tradizionale per il Cfd, contratti per differenza. In pratica, non compro titoli Edf, ma mi impegno con l’intermediario a regolare a una certa data la differenza di prezzo tra la quotazione attuale di Edf e quella futura. Il tutto in esenzione di Tobin. Si dirà: ok, ma perché non lo fanno tutti? Perché la pura compravendita esaurisce i suoi effetti subito (qui i soldi, ecco le azioni), mentre nel caso del Cfd si apre una posizione di credito nei confronti della controparte, perché l’operazione si regolerà a distanza di mesi. E per ottenere un merito di credito occorre essere grossi e capitalizzati. Con il che questi fenomeni di legislatori sono riusciti a ottenere l’effetto contrario anche per l’altro scopo della Tobin: ovvero disincentivare comportamenti speculativi fi ni a se stessi. Con il meccanismo descritto, infatti, aumenta il rischio sistemico: chi può essere certo se tra sei mesi o un anno la controparte con cui si è negoziato il cfd sarà ancora in piedi? Basta ricordare il panico del 2008, quando nessuno voleva avere come controparte persino l’Ubs. E anche qui l’esempio francese è evidente: a fare da controparte sui cfd sono solo i tre grandi gruppi bancari nazionali. Alla faccia dell’evitare il too big to fail. I pochi che pagheranno davvero la Tobin all’italiana saranno quindi non i grandi trader, che opereranno tale e quale a prima, ma su mercati e con strumenti diversi, ma i cassettisti e i piccoli investitori, quelli che, lo dimostrano anni di statistiche della Borsa italiana, sono di gran lunga più stabili e meno tentati dal trading. Era proprio loro la libbra di carne che gli Shylock politici pretendevano? Infine, qualora venissero risparmiate (e non è detto) dalla Tobin le operazioni sui derivati, lo 0,20% sulle compravendite azionarie darà un colpo letale alle sim italiane, c h e fanno ricerca sulle società italiane a favore di grandi clienti sani italiani e non (i fondi pensione americani etc.). Quindi, si smantelleranno molte società di intermediazione, faranno meno affari le società di software che lavoravano per loro eccetera; quanto alla Borsa italiana, pagherà molte meno imposte così come le sim residue. Anche le blue chip italiane (e i top manager dall’andamento in borsa delle quali hanno legato gran parte della loro remunerazione) dovrebbero preoccuparsi della Tobin all’italiana, perché vanifi ca la funzione primaria dei mercati, quella di dare liquidità al sistema. La presenza di una tassa così alta rende ineffi ciente il prezzo delle azioni: i pochi operatori rimasti dovranno applicare ampi spread tra denaro e lettera, e quindi anche l’investitore di lungo periodo fi nirà per pagare di più. Niente gettito, nessun disincentivo: basta tutto ciò per chiedere di stralciare la Tobin dalla legge di stabilità e fare come i tedeschi, che hanno rinviato al 2016 la materia, in attesa che l’Unione europea prepari un proprio articolato valido per più paesi? La stessa Commissione europea ha protestato contro questa Tobin fai-da-te, sollecitando cooperazione su un piano di azione complessivo. Si dirà: e il gettito previsto? L’Agenzia delle entrate lo troverà sicuramente bussando alla porta delle grandi multinazionali digitali per cui l’Italia è paese di forte domanda e di scarsissima imposizione fi scale. Un esempio? A Londra, dove sono sempre pragmatici, è bastato convocare il colosso Starbucks davanti a una commissione parlamentare di Sua maestà, che gli chiedeva come mai in 14 anni avesse pagato in totale 8,6 milioni di sterline di imposte. Starbucks si è impegnato subito a versare come minimo 10 milioni di sterline l’anno. © Riproduzione riservata