di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Dopo la riforma del sistema previdenziale, ora Mario Monti ha messo nel mirino l’altro grande canale della spesa per il welfare ossia la Sanità. Il primo ministro ha chiarito che non intende privatizzarla, ma c’è bisogno di cambiare il meccanismo di finanziamento. L’obiettivo è rafforzare la sanità integrativa in modo da rendere quel meccanismo più flessibile, come emerge dall’analisi di European house Ambrosetti nel nuovo rapporto Meridiano sanità 2012. Tra le dieci proposte che lo studio elenca per continuare a garantire l’esistenza di un Servizio sanitario nazionale, c’è proprio l’individuazione delle prestazioni da coprire attraverso forme di sanità integrativa che vadano soprattutto a coprire i bisogni più critici, come la cura di malattie croniche, l’assistenza alle persone non autosufficienti e le cure odontoiatriche. Un ruolo importante ai fondi sanitari lo riserva anche lo studio Oasi 2012 del Cergas Bocconi che invita anche a riflettere su quali rischi si corrono se si attuano ulteriori tagli a un sistema tra i più «parsimoniosi» d’Europa. Si legge infatti nel Rapporto coordinato da Elena Cantù: «Chiedere ulteriori sacrifici a un sistema già parsimonioso, rischia di aggravare ulteriormente il divario tra le risorse disponibili e quelle necessarie per rispondere in modo adeguato alle attese. Le risorse, in altri termini, sono sempre più insufficienti, con il rischio concreto di intaccare ulteriormente una copertura pubblica già incompleta ». Quindi la strada giusta non è quella dei tagli, ma della ricerca dell’efficienza e di maggiori risorse. In particolare il Rapporto si focalizza su tre possibili fonti di finanziamento, ossia l’ attività a pagamento, assistenza socio-sanitaria e fondi integrativi. Questi ultimi dovrebbero occuparsi proprio delle prestazioni il cui finanziamento non è sostenibile con le tasse pagate dai cittadini. In Europa infatti i sistemi sanitari che resistono di più alla crisi sono quelli che si basano, oltre che sul sistema pubblico, anche su fondi sanitarie, casse, mutue e polizze. Il problema per l’Italia è che con la crisi le famiglie stringono la cinghia anche sul fronte della spesa per le cure mediche, e nel frattempo la diffusione di assicurazioni sanitarie, incluse quelle mutualistiche, è ancora scarsa e questo è un problema soprattutto quando si devono gestire le emergenze. Secondo uno studio di Federico Spandonaro, docente del Ceis dell’Università di Roma Tor Vergata, la spesa socio-sanitaria annua media delle famiglie italiane ammonta a 1.840 euro, ovvero il 5,8% dei consumi. Già con la crisi del 2009 (ultimi dati disponibili) il consumo effettivo si è ridotto considerevolmente (meno 5,6% rispetto al 2008), con un crollo per i ricoveri a pagamento, ma anche per i servizi classificati come ausiliari (infermieri, fisioterapisti). Demetrio Houlis, presidente di Emapi, l’ente di mutua assistenza dei professionisti italiani, ricorda che nel 2011 l’Italia, con una spesa sanitaria pari al 7,3% del pil, è scivolata al 18° posto nella classifica dei 31 paesi Ocse, al di sotto della media europea e soprattutto ben distante dai principali paesi dell’unione: Italia 3.080 dollari pro capite, Regno Unito 3.311, Francia 3.872, Germania 4.072. «Con gli ulteriori interventi previsti, che dovranno ridurre nel triennio fino al 2014 la spesa pubblica sanitaria di ulteriori 8 miliardi», sottolinea Houlis, «il quadro è destinato a peggiorare. Inoltre la costante diminuzione degli investimenti dello Stato nel settore sanitario implica il rischio di un progressivo degrado delle strutture pubbliche. Di fronte a necessità non procrastinabili diventa perciò determinante avere la capacità di poter attivare risorse ulteriori rispetto a quelle pubbliche, attraverso la spesa privata che in Italia corrisponde a circa un quarto dell’intera spesa sanitaria». Si tratta di oltre 30 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica è di circa 110 miliardi. Il problema è che a differenza dei principali Paesi europei, in Italia il 90% della spesa sanitaria privata è sostenuta dalle famiglie, e soltanto il 10% passa attraverso forme mutualistiche o assicurative, contro il 60% della Francia e il 40% della Germania. Questo provoca un rischio di impoverimento. «In Italia l’1,5% delle famiglie, quasi 350 mila, si impoverisce a causa di spese sanitarie e il 4,1%, circa 1 milione, sostiene spese sanitarie elevate, cosiddette catastrofiche, ovvero che superano il 40% della capacità di spesa», dice Laura Crescentini, attuario e consigliere dell’Emapi. Ma dietro a questi numeri, che mostrano un sistema sanitario tricolore meno costoso rispetto a quello degli altri big europei ci sono, però, alcune peculiarità del sistema Italia che suscitano l’allarme anche nella prospettiva di un invecchiamento progressivo della popolazione e di un conseguente aumento delle prestazioni richieste. Chiamata a ridurre il debito, non è infatti pensabile che l’Italia possa aumentare l’incidenza sulla spesa sociale che oggi rappresenta circa il 30% del pil italiano. Un valore in linea con gli altri Paesi europei, ma la domanda di risorse per finanziare sanità, assistenza, lavoro e sostegno alle famiglie è in decisa crescita per il costante aumento delle aspettative di vita: circa due terzi delle persone con età superiore a 75 anni deve ricorrere a un’assistenza informale, prestata essenzialmente da badanti o dai familiari più stretti e in particolare dalle donne. D’altronde l’Italia è uno dei paesi più vecchi al mondo: nel 2011 si registravano 144,5 anziani ogni 100 giovani. Un rapporto che, secondo le stime Istat, salirà nel 2030 a 205,3 anziani su 100 giovani. L’invecchiamento della popolazione comporterà l’aumento della domanda di sanità che già oggi fatica a trovare una risposta per tutti: nell’ultimo anno oltre 2,4 milioni di persone non hanno potuto accedere a prestazioni sanitarie per «ragioni economiche» in base ai dati Censis. Ma quale ruolo giocano oggi in Italia i fondi sanitari? Secondo Marianna Cavazza e Carlo De Pietro che hanno collaborato al rapporto Oasi 2012 del Cergas Bocconi: «malgrado il numero degli iscritti ai fondi, la quasi totalità della spesa privata in Italia risulti ancora pagata out of pocket e non tramite forme di assicurazione. Critica, inoltre, è la tipologia di prestazioni attualmente coperte dai fondi, che non sono né complementari né supplementari rispetto al Ssn, bensì prevalentemente duplicative rispetto a quanto già garantito dal sistema sanitario pubblico, con una recente apertura, indotta dalla normativa, verso la copertura delle prestazioni odontoiatriche, ma una persistente (e comprensibile, nell’attuale contesto demografico e regolatorio) riluttanza ad avventurarsi nel mondo della non-autosufficienza ». Il settore dell’assistenza alle persone non autosufficienti in Italia però stenta a decollare. «Esistono solo due fondi long term care, uno per i dipendenti del settore assicurativo e uno per quello bancario. Recentemente le Poste hanno lanciato tramite Poste vita una polizza long term care», dice Grazia Labate, ricercatrice in economia sanitaria all’università di York. Conclude l’analisi Cergas Bocconi: «Una maggiore consapevolezza permetterebbe invece di cogliere l’occasione della crisi per adottare cambiamenti incisivi che in altre fasi sarebbero molto difficili da attuare». Forse è proprio quello che ha in mente Monti. (riproduzione riservata)