di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Per la previdenza italiana è stato l’anno delle grandi trasformazioni. La riforma Fornero ha stravolto il sistema pubblico facendo sparire le pensioni di anzianità, aumentando l’età per ritirarsi dal lavoro e introducendo il sistema di calcolo contributivo per tutti, seppur in forma pro-quota, al posto del più generoso retributivo che si basa sulla media degli stipendi degli ultimi anni. A partire dal 1° gennaio 2012, le pensioni maturate dopo il 31 dicembre 2011 vengono calcolate per tutti con il contributivo, inclusi i lavoratori che avrebbero usufruito di una pensione calcolata esclusivamente con il retributivo, ovvero quelli che al 31 dicembre del 1995 avevano più di 18 anni di contributi.

Novità anche per le donne. Dal 1° gennaio 2012 la pensione di vecchiaia per le dipendenti del settore privato si ottiene a 62 anni, per le autonome a 63 anni e 6 mesi ed entro il 2018 si dovrà arrivare a 66 anni. Tra sei anni ci sarà quindi parità tra donne e uomini. Questi ultimi dal 2012, sia i dipendenti sia gli autonomi, insieme alle donne del pubblico impiego, vanno in pensione a 66 anni.

Tutti, uomini e donne, devono avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. Dal 2013 tutte le età per la pensione sono adeguate ogni tre anni (ogni due dal 2019) in funzione della speranza di vita (tre mesi in più nel 2013) e in ogni caso nel 2021 l’età minima per la pensione di vecchiaia non potrà essere inferiore a 67 anni per tutti i lavoratori. Non solo. Dal 1° gennaio 2012 la pensione di anzianità non esiste più. È stata sostituita dalla pensione anticipata. Non bastano più 40 anni di contributi ma per il 2012 ce ne vogliono 41 e 1 mese per le donne e 42 e 1 mese per gli uomini. Questi requisiti contributivi, oltre a essere anche in questo caso soggetti dal 2013 all’adeguamento triennale (biennale dal 2019) in funzione della speranza di vita (per il 2013 pari a 3 mesi), sono aumentati di un mese per il 2013 e per il 2014.

 

Sono stati introdotti disincentivi per chi chiede la pensione anticipata prima dei 62 anni. Infatti, sulla quota del trattamento pensionistico relativa alle anzianità contributive maturate prima del 1° gennaio 2012 è applicata una riduzione pari a 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale riduzione è elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo oltre i primi due (ovvero rispetto ai 60 anni).

Oltre all’innalzamento dell’età viene affiancata una certa flessibilità nell’uscita dal lavoro: si potrà andare in pensione da 62 anni a 70 anni con applicazione dei relativi coefficienti di trasformazione del capitale accumulato. La riforma non si applica alle lavoratrici, con un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e di un’età pari o superiore a 57 anni per le dipendenti e a 58 anni per le autonome per le quali, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2015, è confermata la possibilità di conseguire il diritto all’accesso al trattamento pensionistico di anzianità qualora optino per il contributivo, a condizione che la decorrenza del trattamento pensionistico si collochi entro il 31 dicembre 2015. Inoltre i lavoratori che hanno iniziato l’attività dal 1996 (ovvero quelli assoggettati interamente al contributivo) possono andare in pensione di vecchiaia tre anni prima se hanno almeno 20 anni di contributi e una pensione non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale (1.200 euro mensili nel 2012). A parte alcune eccezioni, quindi, in Italia l’asticella per la pensione si sposterà negli anni sempre più avanti per effetto dell’adeguamento dei requisiti alla speranza di vita per accedere alla pensione. Si accumuleranno più contributi ma questo non significa che i pensionati di domani avranno assegni più ricchi perché, insieme all’adeguamento dei requisiti di età e di anzianità di contributi, è prevista una revisione triennale (biennale dal 2019) dei coefficienti di trasformazione in rendita del capitale accumulato che di fatto riducono l’importo della pensione perché la vita media si allunga.

 

Questi coefficienti sono legati infatti all’aspettativa di vita, ma anche al pil. E la bassa crescita economica dell’Italia negli ultimi anni li riduce. Non solo. La recessione taglia anche i montanti accumulati perché questi si rivalutano in base al pil, come previsto dalla riforma Dini del ’95 per il sistema contributivo. E più l’orizzonte si sposta in avanti, più questi calcoli diventano fondamentali perché la quota parte di metodo contributivo diventa sempre più significativa rispetto al retributivo. La Ragioneria dello Stato stima che per un dipendente privato che va in pensione a 68 anni con 38 anni di contributi il tasso di sostituzione si abbasserà dal 74% del 2010 al 70,7% del 2020 fino al 63,5% del 2060. E le stime della Ragioneria prendono come riferimento un pil all’1,5%, basandosi sul fatto che tra il 1990 e il 2007 la variazione è stata dell’1,47% e ignorando completamente la recessione in cui è caduta l’Italia tra il 2008 e il 2011 e le basse prospettive di crescita economica previste per i prossimi anni. Senza dimenticare i buchi contributivi dovuti alla precarietà nel mondo del lavoro.

 

Per evitare il taglio si deve lavorare per qualche anno in più perché in questo modo la percentuale di copertura sale. Oppure bisogna aumentare i versamenti ai fondi pensione. Progetica, società indipendente di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, stima che con un pil che non cresce un 40enne dipendente che scelga una linea bilanciata di un fondo pensione deve versare 300 euro per avere lo stesso tasso di sostituzione che avrebbe con un pil al 2% e 136 euro per compensare la mancanza di un pil all’1%. Versamenti che diventerebbero, rispettivamente, 429 e 194 euro, se lo stesso lavoratore optasse per una linea garantita al 2%.

In realtà chi nell’ultimo anno si fosse affidato a una gestione garantita avrebbe realizzato rendimenti fino al 40%. Mentre la performance media di tutti i comparti aperti è del 10% (vedere tabelle in questa pagina e nelle seguenti). Il miglior fondo pensione a 12 mesi (fonte Fida, dati al 30 novembre) è la Linea 7 investimento Tfr garantito di Ina Assitalia che ha reso il 40,59%, grazie alla ripresa delle quotazione dei titoli di Stato italiani su cui le linee garantite puntano. Il calo dello spread che proprio a inizio del 2012 era sui massimi, ha permesso ai titoli in portafoglio di mettere a segno forti recuperi nelle quotazioni dato che le obbligazioni dei comparti previdenziali sono valutate al prezzo di mercato. Non a caso anche il secondo e il terzo miglior comparto a 12 mesi sono di tipo garantito: si tratta della linea Ina 6 Investimento Tfr garantito 2015 (+26,91%) e della linea Ina 8 investimento Tfr garantito 2033 (+22,16%). Questi comparti che non hanno performance a tre anni perché lanciati dopo la riforma del 2007 per accogliere il Tfr dei lavoratori che si sono trovati iscritti a un fondo pensione.

 

In base al principio del silenzio assenso chi non opta per lasciare il Tfr in azienda viene automaticamente assegnato alla linea garantita del fondo pensione di riferimento, che può essere di tipo negoziale se la propria categoria professionale lo prevede, o aperto se quest’ultimo ha siglato con il datore di lavoro un accordo. Nel primo caso il lavoratore è libero di optare per un fondo aperto o una polizza pip, nel secondo può scegliere un fondo aperto o un pip che non hanno un accordo collettivo con l’azienda, ma perde il contributo del datore di lavoro. Tornando alle performance, a tre anni spiccano Milano Global B (+29,43%) di Milano Assicurazioni e Arti & Mestieri 25+ A (+25,76%) di Anima sgr. (riproduzione riservata)