Dal 2012 aumenta l’anzianità. Penalità prima dei 62 anni 
 di Gigi Leonardi  

 

Addio al sistema retributivo (o misto) e strada spianata al «contributivo» per tutti. E, soprattutto, addio ai 40 anni di contributi come soglia massima per smettere di lavorare: si devono accumulare almeno 42 anni (41 le donne). Sono queste le misure più significative del pacchetto previdenziale contenuto nella manovra del nuovo governo.

Una modifica del sistema che introduce, al di là di un risparmio della spesa, una maggiore equità. Il metodo retributivo che garantisce al lavoratore il reddito che ha ottenuto nell’ultima parte della sua vita, è ormai ritenuto un meccanismo che produce gran parte delle diseguaglianze sociali di oggi. Per capirci: pensiamo, per esempio, al caso limite di un lavoratore che va in pensione da direttore generale, avendo iniziato da fattorino. Il contributivo, al contrario, applicato a chi ha iniziato a lavorare dopo il ’96, produce una sostanziale equipollenza tra contributi versati e pensione erogata. Ma vediamo cosa comporta in concreto.

 Riforma Dini. La riforma varata nell’agosto del ’95 (legge n. 335) prevede tre diversi procedimenti di calcolo della pensione, a seconda dell’anzianità maturata al 31 dicembre di quell’anno.

1) Per i lavoratori più anziani, quelli che potevano contare su un minimo di 18 anni di contributi, il conteggio della rendita è rimasto sostanzialmente invariato: il cosiddetto retributivo, agganciato cioè agli stipendi riscossi nell’ultimo periodo. L’unica modifica ha riguardato la base pensionabile, che dal 1996 ha iniziato a salire più velocemente del previsto verso il traguardo degli ultimi 10 anni.

2) Per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi alla fine del ’95, il calcolo viene invece effettuato utilizzando entrambi i criteri: il retributivo, per gli anni di contribuzione accumulata sino al 31 dicembre 1995; e il contributivo, per quelli versati dal 1° gennaio 1996 in poi.

3) E infine le nuove generazioni, coloro cioè che hanno cominciato a lavorare dopo il ’95, per i quali il conteggio viene determinato esclusivamente con il metodo contributivo.

 Metodo contributivo. Il meccanismo è molto semplice. Il dipendente, con il concorso dell’azienda, provvede ad accantonare il 33% della propria retribuzione (20% del reddito per i lavoratori autonomi). Il conto contributivo viene rivalutato annualmente sulla base della dinamica quinquennale del prodotto interno lordo (la ricchezza nazionale). Alla data del pensionamento, alla sommatoria dei versamenti effettuati, si applica un coefficiente di conversione che va dal 4,798%, per chi sceglie di lasciare il posto e chiedere la pensione all’età di 60 anni, al 5,620% per chi resiste fino a 65.

 Pro-rata. Va detto anzitutto che l’introduzione del criterio contributivo per tutti, viene comunque effettuato in pro-rata. Riguarderà sì la totalità dei lavoratori, indipendentemente dal numero degli anni contributi accumulati al dicembre ’95, ma varrà solo per i versamenti futuri (per la contribuzione versata dal 1° gennaio 2012). Questo significa che gli effetti negativi, il sistema retributivo è certamente più vantaggioso, saranno maggiormente attenuati, quanto più è vicina la data del pensionamento. Inoltre, il vantaggio del vecchio conteggio si attenua ancora di più in presenza di retribuzione pensionabile oltre i 70 mila euro. Ciò si spiega con il fatto che al di là del cosiddetto tetto, l’aliquota di rendimento del 2%, per ogni anno di contributi, si assottiglia sino a raggiungere l’1% (0,90% per le quote di pensione maturate dopo il 1992), per la parte di retribuzione pensionabile eccedente 81.780 euro.

 Vietato illudersi. Qualcuno, compreso chi scrive, si illudeva che il passaggio al contributivo in molti casi potesse essere vantaggioso, soprattutto per chi chiede la pensione di anzianità in presenza di più di 40 anni di contributi (tetto massimo di anzianità considerata nel retributivo) e una retribuzione pensionabile elevata (il contributivo ha un tetto molto più alto). Ma non è così. La bozza del provvedimento varato domenica dal governo, infatti, dice esplicitamente che in ogni caso il complessivo importo della pensione alla liquidazione, non può risultare comunque superiore a quello derivante dall’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore della modifica. Nessun corrispettivo dunque per la contribuzione versata dopo i 40 anni.

 Anzianità più difficile. Da circa 20 anni nell’occhio del ciclone, il pensionamento anticipato ha resistito per lungo tempo: colpito più volte, ma non affondato. L’ultimo siluro aveva come obiettivo quello di accompagnare i 40 anni di contributi ad una soglia minima di età di 60 anni. Nulla di fatto. Come si sa, dal 1° luglio del 2009 è entrato in vigore il meccanismo delle quote che ha sostituito il paventato scalone, introdotto nel 2004 dalla riforma Maroni, vale a dire il brusco passaggio da 57 a 60 anni del requisito anagrafico da accompagnare ai 35 anni di contribuzione. In pratica, il pensionamento anticipato (sino a tutto il 31 dicembre 2011) si può ottenere solo se sommando l’anzianità contributiva e l’età anagrafica si riesce a raggiungere la quota prevista, ferma restando la necessità di avere in ogni caso una soglia minima di età e i soliti 35 anni di contributi. In altre parole, per chi non può vantare almeno 40 anni di versamenti, la pensione di anzianità si può ottenere raggiungendo quota 96, con età non inferiore a 60 anni (quota 97 e almeno a 61 anni i lavoratori autonomi) nel periodo che va dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2012. La quota avrebbe dovuto attestarsi definitivamente a 97, con età non inferiore a 61 anni (quota 98 e almeno 62 anni per i lavoratori autonomi) dal 1° gennaio 2013 in poi. Così però non è stato, poiché la manovra del governo Monti ha abolito le quote.

 Quarant’anni non bastano più. Fino a qualche anno fa, per chi iniziava a lavorare molto giovane, questo era il massimo della carriera professionale. Da un po’ di tempo non è più così, e la manovra dell’estate scorsa aveva ulteriormente spostato in avanti la soglia, che nel 2014, grazie alla famosa finestra mobile sarebbe arrivata di fatto a 41 anni e 3 mesi e anche di più per i lavoratori autonomi. Non si trattava però, è bene dirlo, del diritto alla pensione di anzianità, che era rimasto fissato a 40 annualità, indipendentemente dall’età anagrafica. Non era stato messo in discussione neppure dal meccanismo che lega le pensioni all’aspettativa di vita: di triennio in triennio verranno incrementati i vari limiti di età, ma non il tetto dei 40 anni. Nel 2012, invece, per pensionarsi in maniera anticipata occorre un minimo di 42 anni e un mese (41 e un mese per le donne); nel 2013 ci vogliono 42 anni e 2 mesi (41 anni e 2 mesi le donne). Dal 2014 in poi saranno richiesti 42 anni e 3 mesi (41 anni e 3 mesi le donne). In compenso, è stata soppressa la finestra, per cui l’assegno Inps decorrerà dal mese successivo alla cessazione dell’attività lavorativa.

Le penalizzazioni. Ma per la pensione di anzianità non è finita qui. Al fine di disincentivare il pensionamento anticipato rispetto a quello di vecchiaia, sono state introdotte delle misure di riduzione. Se, infatti, si chiede la pensione di anzianità prima dei 62 anni di età, l’assegno verrà corrisposto, per la quota retributiva, con una riduzione pari al 2% per ogni anno di anticipo. Questo significa che un lavoratore con 39 anni di lavoro alle spalle, alla data del 31 dicembre 2011, che contava di raggiungere i 40 anni nel 2012 e incassare la pensione nel 2013 (dopo un anno e due mesi) ora dovrà aspettare il mese di aprile del 2015. Non solo, ma se la sua età nel 2015 è inferiore a 62 anni, in trattamento che riceverà dall’Inps sarà ridotto nella misura del 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 62 anni.