di Roberta Castellarin

 

La riforma previdenziale contenuta nel decreto salva-Italia approvato a fine dicembre rappresenta una svolta per il welfare italiano. L’intervento messo a punto dal ministro Elsa Fornero ha abolito le pensioni di anzianità, costringendo i lavoratori a rimanere in attività anche fino a sei anni in più, e ha introdotto per tutti il sistema contributivo di calcolo della pensione, nel segno di una maggiore equità tra generazioni. Infatti per i lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996 valeva già il principio del contributivo per il calcolo dell’intera pensione, mentre coloro che a quella data avevano meno di 18 anni di contributi ricadono nel sistema misto, cioè il loro assegno viene calcolato fino al 31 dicembre 1995 con il più generoso sistema retributivo e dopo tale data con il contributivo. Ora il pro rata è esteso anche ai lavoratori che al 1° gennaio 1996 vantavano più di 18 anni di contributi. Per loro dal 2012 la pensione sarà calcolata con il contributivo, fatti salvi gli anni precedenti. Proprio perché prossimi alla pensione, per questi lavoratori l’assegno finale sarà comunque vicino all’80% dell’ultimo stipendio, trattamento riservato a chi ha la pensione calcolata interamente con il metodo retributivo. Non è così invece per chi ricade nel misto o nel contributivo puro, cioè i più giovani. In questi casi la pensione che ci si può aspettare, nonostante una maggiore permanenza al lavoro, è in media del 60% dell’ultimo stipendio, con casi anche del 30-40% per gli autonomi, che versano meno contributi nell’ipotesi di continuità lavorativa.

Eppure la maggior parte dei lavoratori presta attenzione al fatto che deve lavorare di più, sottostimando invece il problema di quanto potrà ottenere. «Il ridimensionamento delle prestazioni pubbliche implicito nelle riforme attuate richiede un valido pilastro di previdenza complementare per rendere socialmente sostenibile il sistema», sottolinea Assonime. Tra i motivi del mancato sviluppo dei fondi complementari Assonime cita l’insufficiente consapevolezza da parte dei lavoratori del ridimensionamento futuro delle pensioni pubbliche. Da qui anche la necessità di un conteggio individuale periodico che indichi quando e con quale assegno si potrà andare in pensione. Lo chiede anche il presidente della Covip Antonio Finocchiaro: «Fornire ai lavoratori informazioni sul tasso di copertura e sul livello delle prestazioni che il primo pilastro pensionistico sarà in grado di offrire potrebbe far incrementare gli attuali tassi di adesione alla previdenza complementare». Questo vuoto informativo sarà presto colmato. I lavoratori potranno ricevere presto la cosiddetta busta arancione che, sul modello svedese, indica l’importo della pensione pubblica che ci si può aspettare. «C’è l’intenzione da parte di Inps, Inpdap, Enpals e casse private di inviare 40 milioni di lettere agli italiani», ha evidenziato il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, «grazie alla banca dati delle posizioni attive che l’Inps ha realizzato in un anno di lavoro, per metterli in condizione di fare la scelta giusta». E soprattutto di fare una scelta. Perché oggi in Italia solo il 23% dei lavoratori aderisce ai fondi pensione, contro circa il 90% nel resto d’Europa. (riproduzione riservata)