Lo Stato fa cassa con il blocco delle rivalutazioni e accelerando la marcia verso i 65 anni delle donne. Ma affinché il sistema sia equo-sostenibile non basta il contributivo pro rata per tutti. I cinquantenni devono lavorare di più per non far pagare il conto agli under 45 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia è spaccata in due dal punto di vista del sistema previdenziale pubblico. I giovani avranno una pensione calcolata con il meno vantaggioso sistema contributivo, dovranno lavorare fino a 70 anni e nel frattempo devono sostenere il peso di un debito pensionistico dovuto al fatto che ancora oggi in Italia vige il sistema retributivo.

Intanto i loro genitori continuano ad andare in pensione anche prima dei 60 anni. È proprio questa l’età media di uscita dal lavoro per anzianità e vecchiaia secondo i dati Inps. Mentre considerando i soli pensionamenti per anzianità si scende a 58,7 anni. La maggior parte dei lavoratori oggi si ritira con 40 anni di contributi, quindi indipendentemente dall’età: i due terzi delle pensioni pagate ogni anno ricade in questa categoria (la parte restante invece è legata al sistema delle quote, ovvero 60-61 anni di età e 36-35 anni di contributi per i dipendenti). Il problema è che gli assegni di questi lavoratori sono calcolati in base al sistema retributivo che garantisce assegni medi del 70-80% dell’ultimo stipendio e oggi ammontano in media a 1.700 euro. Un assegno molto più generoso di quello che si potranno aspettare quanti si ritireranno con il contributivo.

Il retributivo è il metodo che negli anni ha prodotto la maggior quota di debito previdenziale.

Da qui l’intervento di Elsa Fornero, ministro del Welfare, che nella manovra in approvazione con un decreto legge tra domenica 4 e lunedì 5 dicembre punta a estendere anche ai lavoratori che ricadono nel sistema retributivo, ovvero quelli che hanno iniziato a lavorare prima del 1978, il contributivo pro quota. Che oggi riguarda chi a inizio 1996 aveva meno di 18 anni di contributi, mentre chi ha iniziato a lavorare dopo questa data è totalmente retributivo. Gli effetti dei questa manovra ricadrebbero su circa 1,5-2 milioni di lavoratori, persone che andranno in pensione fino al 2016 (dopo quella data i lavoratori retributivi saranno quasi tutti in pensione). Se la platea di lavoratori è ampia, gli effetti pratici sui conti dello Stato dell’intervento sarebbero però modesti. Si tratta in sostanza di un intervento simbolico. Come ha ribadito anche Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del welfare. «Il contributivo pro rata dà pochi vantaggi dal punto di vista economico perché gli interessati subirebbero un taglio dell’assegno nell’ordine dell’1-2%. Ma è una riforma molto importante dal punto di vista etico». Dall’analisi che la società di consulenza indipendente Progetica ha elaborato per MF-Milano Finanza emergono impatti modesti per i lavoratori dipendenti, con differenze comprese tra -2 e +1% rispetto al sistema attuale. Differenze lievemente più marcate per gli autonomi, complice la più bassa aliquota contributiva, con variazioni tra +2 e -6%. Ma ci sono anche casi in cui il lavoratore ottiene una pensione più elevata grazie al contributivo pro rata. «Il valore di un anno di retributivo in meno non è così lontano da un anno di contributivo in più», spiega Andrea Carbone di Progetica. «Qualora con il precedente sistema di calcolo retributivo fosse stato raggiunto il tetto dei 40 anni di contributi, gli anni successivi al quarantesimo nel sistema pro rata potrebbero migliorare il tasso di sostituzione, rendendo in taluni casi potenzialmente positivo l’effetto della riforma.
Per i lavoratori autonomi, con un’aliquota attualmente di 13 punti più bassa di quella dei dipendenti, il sistema pro-rata renderebbe le diminuzioni degli assegni lievemente più accentuate».

Ben maggiore sarebbe per i conti dello Stato l’impatto delle altre riforme in cantiere. A partire dal blocco, nel 2012 e forse anche nel 2013, dell’adeguamento annuale delle pensioni all’inflazione che vale circa 2 miliardi all’anno ogni punto di inflazione (il grafico in pagina simula la riduzione dell’assegno in caso di eliminazione della rivalutazione). Gli interventi più corposi in termini di risparmi arriverebbero però dai ritocchi sull’età pensionabile per accedere alla pensione di anzianità sia rivedendo il sistema delle quote sia agendo sui 40 anni di contributi, una soluzione osteggiata fortemente dai sindacati come ha ribadito ancora venerdì 2 il segretario della Cgil Susanna Camusso. Questo intervento, unito al contributivo pro rata per tutti e all’aumento dell’età per la pensione di vecchiaia delle donne, porterebbe risparmi per circa 15 miliardi di euro. Le misure sul fronte delle lavoratrici del settore privato puntano ad accelerare l’incremento dell’età pensionabile di vecchiaia per arrivare nel 2016 o nel 2018 a equipararla a quella degli uomini che dovrebbe salire a 66-67 anni.

 Già questa estate il Governo Berlusconi era intervenuto due volte per rialzare l’età per le pensioni di vecchiaia delle donne. Una prima volta a luglio con l’aumento a 65 anni tra il 2020 e il 2032 e una seconda volta con la manovra d’agosto che ha anticipato i 65 anni dal 2014 al 2026. Ma di fatto, considerando l’adeguamento triennale dell’età pensionabile alle aspettative di vita Istat e le finestre in vigore, le donne nate dal 1966 in avanti che hanno iniziato tardi a lavorare andranno in pensione a oltre 70 anni. Proprio a proposito delle lavoratrici Giuliano Cazzola, deputato Pdl, ha sottolineato che sarebbe opportuno accelerare l’andata a regime a 65 anni dell’età di vecchiaia delle lavoratrici dei settori privati. Per adottare questa misura secondo criteri di equità è indispensabile però rendere più rigorose le regole dei trattamenti di anzianità, di cui fruiscono gran parte dei lavoratori in pensione. «Altrimenti», continua Cazzola, «potrebbe determinarsi, nel giro di alcuni anni, una contraddizione: le donne, che per la loro posizione nel mercato del lavoro devono accontentarsi dei trattamenti di vecchiaia, andrebbero in pensione più tardi degli uomini». Da qui si torna al tema dell’equità, ma senza dimenticare l’emergenza debito pubblico. Il problema infatti riguarda l’elevato disavanzo dei conti per la spesa delle pensioni, ma il peggio deve ancora venire. «L’aspetto di maggiore criticità che grava sul sistema pensionistico, e non solo pensionistico, italiano attiene alla cosiddetta onda demografica», sottolinea Massimo Angrisani, docente all’università La Sapienza e fondatore del centro studi Logica previdenziale, «cioè alla struttura demografica della popolazione italiana a seguito di tre fenomeni: il boom delle nascite degli anni 60, la successiva forte contrazione della natalità e l’allungamento dell’aspettativa di vita. Come risulta evidente graficamente tale fenomeno comporterà un rilevante e, sotto il profilo della sostenibilità economica, drammatico aumento della popolazione anziana. Gli ultra-65enni passeranno da circa 12 milioni del 2010 a oltre 16 milioni nel 2030 per raggiungere nel 2050 quota 20 milioni. È necessario che il nuovo governo effettui un’adeguata valutazione economica delle implicazioni di tipo assistenziale e previdenziale di tale problema. E che indichi con chiarezza i limiti entro i quali potrà essere fronteggiato dalla previdenza obbligatoria ed in che misura dovrà essere affrontato dalla previdenza complementare».

Rimane il problema dell’adeguatezza, nonché della mancanza di equità e del permanere di disomogeneità nei livelli di contribuzione e di prestazione, problemi che devono trovare al più presto una soluzione. «Il sistema pensionistico italiano, nonostante le riforme già introdotte, non è socialmente sostenibile nel medio-lungo termine e richiede interventi urgenti per non gravare sul futuro pensionistico delle giovani generazioni», ha messo in luce Giampaolo Crenca, presidente del consiglio nazionale degli attuari in un convegno per la Giornata degli attuari delle pensioni. «C’è il rischio che le persone che oggi hanno tra 25 e 40 anni ricevano in futuro una pensione complessiva non sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso».

Per rendere il sistema finanziariamente sostenibile, secondo il presidente del consiglio nazionale degli attuari «è importante abbreviare i tempi per l’abolizione delle pensioni di anzianità, mantenendo solo le pensioni di vecchiaia, da erogarsi prevedendo un’età minima, contemplando in tale ambito anche i trattamenti per chi ha versato contributi per un cospicuo numero di anni».

 D’altronde ormai tutte le proiezioni sulla popolazione italiana, incluse quelle dell’Istat, convergono sul fatto che nel 2030 la speranza di vita alla nascita potrebbe raggiungere gli 82 anni per gli uomini e gli 87 anni per le donne e nel 2050 rispettivamente 84 e 89 anni, mentre la speranza di vita residua all’età di 65 anni nel 2030 potrebbe raggiungere per gli uomini 20 anni e 24 per le donne (nel 2050 rispettivamente 22 e 26 anni), con un forte aumento della percentuale delle persone anziane e degli ultraottantacinquenni. Nel frattempo l’età media della popolazione italiana potrebbe attestarsi intorno ai 50 anni nel 2050 contro i circa 43 attuali.

Da rivedere, secondo Crenca, anche la previdenza complementare, che rischia di non assolvere al proprio obiettivo di colmare il divario dovuto alla riduzione degli importi delle pensioni obbligatorie. «Gli iscritti alla previdenza complementare sono ancora troppo pochi e il livello di contribuzione è troppo basso», osserva Crenca. «Da rivedere al più presto anche il sistema di gestione di tutti i fondi pensione di nuova generazione basati sul valore di mercato degli attivi, sistema la cui volatilità mal si adatta agli obiettivi previdenziali di medio-lungo periodo dei fondi pensione».

La sostenibilità nel lungo periodo del sistema previdenziale di base ha imposto, come osserva Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, «una contrazione prospettica anche significativa dei livelli di copertura pensionistica, accrescendo ulteriormente il bisogno di previdenza complementare». Attualmente sono 5,3 milioni gli italiani che aderiscono alle forme di previdenza complementare, pari al 23% del potenziale complessivo degli occupati. Servono quindi nuove iniziative per incrementare la platea degli aderenti. Secondo il rapporto Censis 2011 circa l’80% delle famiglie italiane non manifesta alcuna volontà di aderire a schemi previdenziali integrativi in futuro e addirittura in un caso su 10 ignora completamente il tema. «Una strada potrebbe essere quella di trovare forme di partecipazione semi-coattive», conclude Corbello, «in cui il soggetto sia vincolato dalla contrattazione collettiva a partecipare a un piano complementare e abbia al contempo la possibilità di rinunciarvi entro un termine prefissato». (riproduzione riservata)