di Bianca Pascotto
Sono poche le vie di fuga concesse al detentore di un bene che sia stato il mezzo o l’occasione di un danno.
Il danno provocato da cose in custodia è oggetto di quotidiane pronunce giurisprudenziali e le fattispecie alla ribalta, pur diverse e variegate, sono tutte accomunate da un unico comune denominatore: la difficile prova liberatoria che incombe al custode per la responsabilità oggettiva posta a suo carico.
Perché è noto che detta prova liberatoria è tanto univoca quanto esclusiva: il custode deve dimostrare in concreto che il danno è stato provocato da un fattore esterno, imprevedibile, inevitabile e del tutto estraneo all’ambito/sfera del suo controllo sul bene.
Il “fattore esterno” è stato individuato dalla giurisprudenza in un elemento naturale, nella condotta del danneggiato e anche nella condotta di un terzo.
Ed è quest’ultima fattispecie che ha interessato la Corte di Cassazione, pronunciatasi nel settembre di quest’anno[1].
LA VICENDA
In un piazzale antistante una scuola, alcuni ragazzi giocano a pallone che, calciato, esce oltre la ivi esistente recinzione.
Caio scavalca il recinto recupera il pallone e nel rientrare si appoggia ad un lampione privo di corpo illuminante e muore per folgorazione.
Il procedimento penale per omicidio colposo avviato nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico comunale, del direttore dei lavori della società che ha installato l’impianto di illuminazione e del responsabile della ditta manutentrice dell’impianto convenzionata con il Comune, si conclude con la condanna di quest’ultimo e l’assoluzione dei restanti imputati.
Nel giudizio civile per il risarcimento del danno sofferto dai congiunti di Caio promossa contro il Comune, quale proprietario e custode dell’impianto di illuminazione, il tribunale respinge la domanda che invece viene accolta dalla Corte d’Appello di Caltanissetta. Il Comune impugna la decisione.
LA SOLUZIONE
Il ricorso articolato in ben nove motivi di reclamo, viene respinto.
Tra i vari motivi dichiarati inammissibili, due in particolare riguardano la responsabilità che trova conferma in capo all’ente pubblico.
Innanzitutto la Corte ricorda il principio dell’autonomia e della separazione tra il processo penale e quello civile, atteso il diverso atteggiarsi della valutazione della colpa e della responsabilità nei due giudizi.
L’assoluzione nel processo penale (nel caso di specie perché il fatto non sussiste) esplica i suoi effetti “positivi” sulla valutazione della (ir)responsabilità a carico dell’imputato, solo nel caso in cui la parte danneggiata sia costituita parte civile e abbia pertanto svolto la sua azione ed esercitato il suo all’interno del procedimento penale.
Nel giudizio penale il Comune è stato coinvolto quale civilmente risposabile civile del fatto imputato al suo funzionario, poi assolto, ma il giudicato penale non ha interessato, né avrebbe potuto, l’accertamento della responsabilità da custodia del Comune sul lampione, ma ha solo accertato l’assenza di colpa personale in capo al funzionario.
Nel giudizio civile il Comune è chiamato a rispondere per fatto proprio, non per la condotta di un suo dipendente e la responsabilità ex recepto necessita della “prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo , fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché quanto a quelli del danneggiato per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota”.
Quindi il Comune non solo non può trarre alcun vantaggio dalla sentenza irrevocabile di assoluzione del suo funzionario ma, considerato che risultava esservi prova che i lampioni non erano in sicurezza o recintati, il Comune quale custode è responsabile della morte di Caio, in assenza di prova liberatoria.
Nella fattispecie detta prova non ravvisarsi nell’opera del terzo (manutentore), come sostenuta dal Comune in forza di contratto di manutenzione, per lo stato fatiscente in cui versava l’impianto, atteso che solo una modifica dello stato della cosa che sia intervenuta in modo repentino e simultaneo, riesce ad elidere il nesso causale tra cosa custodita e danno.
[1] Corte di Cassazione ordinanza del 19 settembre 2024 n. 25200
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