I 2,5 MILIARDI INCASSATI DALL’AUMENTO E LA RIPRESA DEL MARGINE DI INTERESSE PERMETTERANNO AL MONTEPASCHI DI TRATTARE ALLA PARI UNA FUSIONE. E IL MERCATO SCOMMETTE GIÀ SUL BANCO BPM

Con l’aumento di capitale da 2,5 miliardi che si è chiuso giovedì 3 novembre il Montepaschi ha voltato pagina. Quella che pochi mesi fa era una banca alle prese con deficit patrimoniale, costi fuori controllo e strategia incerta, oggi può giocare alla pari con gli altri istituti medi italiani. Alla normalizzazione hanno contribuito non solo la raccolta di nuovi capitali, ma anche le prime iniziative del piano industriale presentato nel giugno scorso dal ceo Luigi Lovaglio. Da ultimo il Monte, come le altre banche commerciali, beneficerà della brusca risalita dei tassi di interesse che porterà preziosa benzina al margine di interesse. Questo insieme di fattori dovrebbe insomma influenzare non solo la percezione dell’istituto e l’andamento del titolo (che venerdì 3 ha perso il 12% a 1,62 euro), ma anche il processo di privatizzazione che il Tesoro potrebbe riavviare nei prossimi mesi.

L’aumento di capitale. L’operazione si è chiusa con un esito decisamente migliore rispetto alle previsioni del mercato. Partita in un periodo di forte instabilità economica e istituzionale, l’offerta si è chiusa con adesioni al 96,3% e un inoptato di 93 milioni. Un contributo di rilievo è arrivato non solo dal gruppo dei sub-underwriter (che si è accollato 475 milioni), ma anche dalla moral suasion che il Tesoro ha esercitato sulle fondazioni, sulle casse di previdenza e su alcuni primari asset manager italiani. Senza questo attivismo di via XX Settembre e del suo direttore generale Alessandro Rivera l’esito sarebbe stato diverso. Lo ha riconosciuto anche il ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina che ha speso parole di elogio per il dirigente del Mef: «Credo sia una delle persone tecniche di maggiori capacità al ministero dell’Economia e l’ho apprezzato sempre in tutte le interazioni che ho avuto con lui per cui non posso che parlarne come una delle migliori competenze che abbiamo nel nostro Paese», ha dichiarato il banchiere a margine della Giornata del risparmio. Anche Intesa peraltro ha avuto un ruolo non secondario nell’operazione. Pur senza entrare nel capitale del Monte, la banca di via Monte di Pietà -spiegano fonti vicine al consorzio- si è infatti spesa attivamente attraverso il proprio network italiano e internazionale per favorire l’operazione. Un ruolo importante è stato giocato anche dalle fondazioni che hanno versato nel Monte un centinaio di milioni, sotto la regia del presidente dell’Acri Francesco Profumo: «Le principali fondazioni bancarie sono scese in campo con l’obiettivo di portare a una stabilizzazione della banca per portare a buon fine un’operazione che poteva essere complicata», ha dichiarato Profumo nei giorni scorsi. Nel nuovo capitale del Monte gli enti avranno così una partecipazione complessiva del 3%, con la Fondazione Mps (ex socio di maggioranza di Siena) allo 0,4% dopo un investimento da 10 milioni.

Il piano industriale. Se il ruolo delle istituzioni è stato importante, l’operazione non sarebbe arrivata in porto senza l’equity story delineata da Lovaglio nel piano di giugno. Il ceo vuole cambiare pelle al Monte riportandolo alla redditività e alla remunerazione degli azionisti, con un utile previsto a 833 milioni nel 2026. Con il taglio al personale la banca otterrà inoltre già a partire dal 2023 un risparmio dei costi pari a 270 milioni su base annua. L’obiettivo è insomma quello di avere un istituto ripulito dagli npl, con una riduzione dei costi che aiuterà a riportare il rapporto cost/income entro il 60% e con un rischio di cause legali mitigato dalle recenti assoluzioni degli ex vertici Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, dovrebbe tornare a esprimere valore e a essere appetibile per un’aggregazione. Un contributo decisivo sul fronte reddituale, come detto, arriverà dall’aumento dei ricavi legato ai tassi. Già nel terzo trimestre dell’anno le banche italiane hanno registrato incrementi del margine di interesse superiori al 10%. Se anche il Monte seguisse questo trend -ritengono diversi analisti finanziari- l’azione di risanamento sarebbe già in discesa.

La strada verso l’aggregazione. Per ora il governo di Giorgia Meloni non ha scoperto le carte sul futuro di Mps, ma diversi osservatori prevedono che il processo di privatizzazione possa ripartire già nel 2023. Sul mercato però arriverà una banca molto diversa da quella che l’anno scorso il ceo di Unicredit Andrea Orcel voleva comprare gratis e con una dote di 7 miliardi. Il Monte ricapitalizzato e rilanciato da Lovaglio sarà valutato ai multipli di una normale banca commerciale e l’aggregazione si preannuncia come un vero e proprio deal di mercato. Chi si avvicenderà? Per il momento non ci sono canali aperti, ma il candidato favorito in ambienti finanziari rimane Banco Bpm. Non solo perché sulla carta un match tra Mps e il Banco (che pure nelle scorse settimane ha preferito mantenersi lontano dal cantiere senese) potrebbe funzionare in termini di sinergie, ma anche perchè l’operazione metterebbe il gruppo guidato da Giuseppe Castagna al sicuro dalle mire di Unicredit e di Crédit Agricole, dando vita a quel terzo polo bancario che l’Italia aspetta da dieci anni. (riproduzione riservata)

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