Il rapporto fra ipo e delisting a Piazza Affari nel 2022 è perdente. E fa riflettere. Da gennaio a inizio novembre si è contata una ventina di quotazioni per un valore complessivo, calcolato il primo giorno di approdo in borsa, di 4,77 miliardi. Per contro le uscite sono state pari come numero, ma per un valore di oltre 20 miliardi di euro considerando anche Cattolica e Carige che sono state inglobate, rispettivamente, in Assicurazioni Generali e in Bper. Se le ipo più importanti per peso sono state, nel 2022, quelle di Iveco (2,7 miliardi), Technoprobe (812 milioni) e Industrie Del Nora (0,55 miliardi), le uscite di peso riguardano Exor (15 miliardi, la holding della famiglia Agnelli-Elkann che si è spostata ad Amsterdam), Falck Renewables (2,8 miliardi), Cerved (2 miliardi).

Queste sono le operazioni concluse. Ma non bisogna dimenticare che sono in corso alcune importanti fuoriuscite: Atlantia (18,8 miliardi di capitalizzazione), Autogrill (2,5 miliardi), Tod’s (1 miliardo). In tutto sono attorno a 43,5 miliardi, 10 volte il valore delle ipo. Se Cnh, un’altra società della galassia Agnelli-Elkann, lascerà a sua volta Piazza Affari per New York, come ha annunciato l’amministratore delegato del gruppo dei trattori, Scott Wine, se ne andrebbero altri 20 miliardi di valore di mercato.

Se poi avrà poi luogo la tanto chiacchierata opa organizzata da Cdp su Telecom Italia, si dovrà contare anche il delisting di Tim per 5 miliardi. Arriviamo a 70 miliardi circa di abbandoni su 700 miliardi di valore della intera borsa: il 10%. Quanto al 2023, se a Parigi Renualt sta pianificando di quotare l’auto elettrica, in Germania Volkswagen, dopo l’ipo di Porsche a Francoforte, medita di portare in borsa il marchio Lamborghini, in questo caso forse a Wall Street. In Italia non sono attese al momento ipo di tale rilievo. Secondo i dati Euronext, i delisting del gruppo dei listini europei che controlla Borsa italiana sono stati 92 nel 2022 su tutti i mercati, di cui una ventina a Milano.

Sono diverse le ragioni per cui la borsa soffre, una di queste è la concorrenza del private equity. Secondo quanto ha calcolato Equita nel suo report Financial Sponsors’ Activity Monitor relativo ai primi nove mesi del 2022, i multipli relativi alle società oggetto di M&A da parte di fondi sono saliti nel 2022 a 12,7 volte l’Ebitda dalle 12,2 volte del 2021, quando già si era visto un balzo dalle 10 volte del 2020, tornando quindi ai livelli del 2018 e sopra la media degli ultimi cinque anni a quota 11,2 volte. Nel contempo, tuttavia, questi dati in crescita si confrontano con il calo dei multipli di valutazione delle aziende quotate a Piazza Affari in discesa per il settore industriale a 5,2 volte l’ebitda rispetto alle 6,4 volte della media degli ultimi 5 anni, a 7,9 volte per il settore delle Tlc (da 9,3 volte), 8,4 volte per i consumi (da 10,9 volte) e 11,4 volte per l’healthcare (da 14,7 volte).

Andrea Ferrari, responsabile Equity Capital Markets di Equita, spiega che «sulla concorrenza del private equity verso la borsa influiscono senza dubbio tre fattori. Da un lato la liquidità elevata nel mondo privato ha favorito la competizione sul prezzo per asset di qualità, pur in presenza di un contesto monetario che rende più sfidante l’utilizzo della leva in operazioni di acquisizione». A questo, si aggiunge la maggior «lentezza del mondo privato nell’essere impattato da condizioni macro sfavorevoli con la stessa velocità dei mercati azionari: elemento che si osserva storicamente alla fine di cicli economici espansivi per la minore elasticità del segmento privato», riprende Ferrari. Secondo cui è un po’ come accade nel mondo degli affitti e delle cessioni immobiliari in caso di impatti negativi sulla valutazione, «il primo si adegua più velocemente all’evolversi delle condizioni, il secondo può permettersi di restare fermo e di conseguenza dimostrarsi più resiliente dal punto di vista valutativo. Chi non è costretto a vendere semplicemente non lo fa. Non a caso uno dei settori che prima si è adeguato ai nuovi paradigmi valutativi è quello tecnologico» per la necessità delle società di continuare a raccogliere capitale. E’ il caso di Klarna, fintech svedese che a luglio ha raccolto 800 milioni di dollari in un round privato con un forte ribasso (-85%) della valutazione rispetto a un anno prima.

Terzo fattore, prosegue Ferrari, è «il premio di controllo e le prospettive di sinergia in acquisizioni che riguardano la maggioranza del capitale. Nel private equity questi fattori impattano in positivo le valutazioni e consentono il pagamento di premi rispetto alle valutazioni di mercato, come osservato nei recenti casi di delisting». Equita sta organizzando con Emintad il 22 novembre un evento a Milano dedicato al tema ipo. L’incontro («Crescere attraverso la quotazione sui mercati – L’accesso semplificato ai mercati come opportunità per le imprese italiane») vuole analizzare se l’accesso semplificato ai mercati possa dimostrarsi un’opportunità di rilancio per le imprese.

Secondo Giulio Centemero, deputato della Lega, «prima di tutto è necessario creare un vero mercato borsistico. In dieci anni il numero di società quotate in Italia è cresciuto solo per il mercato Egm delle pmi con le sue 220 Ipo e senza di esso Borsa Italiana, sul mercato principale, ha ridotto il numero delle società quotate di oltre il 30%. Se togliamo banche, partecipate statali e assicurazioni, il mercato regolamentato di Borsa non è rappresentativo del tessuto economico del Paese», spiega Centemero. Secondo il politico, «bisogna stabilizzare il credito d’imposta per le quotazioni, facilitando il passaggio da Egm a Mta e diminuendo costi e burocrazia».

Sul tema semplificazioni è d’accordo anche Marco Ventoruzzo, presidente di Assosim, l’associazione degli intermediari finanziari in Italia, nonché professore ordinario del Dipartimento di Studi Giuridici della Bocconi: «abbiamo accolto con favore le nuove norme sulle semplificazioni nelle quotazioni approvate da Consob e da Euronext, oltre al tavolo di lavoro del Mef sul Libro Verde (“La competitività dei mercati finanziari italiani a supporto della crescita”). Un tavolo che ha ripreso i lavori negli ultimi giorni». Ridurre tempi e costi è importante, prosegue il presidente. «Così come scovare quei margini su regole che possono essere modificate senza ridurre la tutela per il risparmiatore. Sul fronte del delisting, sono quasi più preoccupanti i passaggi delle società da Piazza Affari in Olanda». Quanto a «possibili future semplificazioni, andrebbero ridotti in maniera sensibile i tempi di risposta di Consob alle questioni formali alla Commissione di emittenti o intermediari, ora passano anche due mesi dopo l’invio della domanda, tempi non compatibili con la borsa», aggiunge. Sulla concorrenza del private equity, il presidente ritiene che i fondi lavorino «sulla società per 4 o 5 anni, ne aumentano redditività e competitività, poi tendono a rivenderla ad altro fondo. Nei cicli di crescita dell’economia però», conclude Ventoruzzo, «il private equity ha portato diverse società a quotarsi». (riproduzione riservata)
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