GIURISPRUDENZA

Autore: Domenico Caiafa
ASSINEWS 347 – dicembre 2022 

Rivisitazione dell’Istituto nel tempo

L’art. 1206 c.c. recita: “il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere alla sua obbligazione”. Il creditore, in tale evenienza, deve pagare i danni dovuti al debitore che si trova a dover esborsare interessi o ad essere considerato inadempiente a causa del comportamento dell’altra parte, illegale o poco commendevole.

La mora del creditore è un istituto previsto dal legislatore agli artt. 1206 cc e seguenti: si verifica allorquando viene, senza legittimo motivo, rifiutato il pagamento del debitore (o del terzo, se previsto = Cass. I sez 26.04.2021 n 10978) e quando, per le ragioni più svariate, si aggrava la posizione del debitore a causa di un comportamento ascrivibile ad esso creditore (Cass S.U. n. 2290 depositata in data 7/12/2018).

Le normative sulla mora credendi postulano l’esigenza di un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione non suscettibile di essere eseguita senza una qualche forma di cooperazione del creditore e, quindi, non si applica alle obbligazioni naturali né a quelle negative.

Il creditore, sostanzialmente, è in mora in due situazioni:
1) quando rifiuta la prestazione, senza legittima motivazione;
2) quando omette di compiere gli atti necessari perché il debitore possa adempiere (rispetto alle convenzioni anche contrattuali) con atteggiamenti che il magistrato dovrà impegnarsi ad individuare nel suo comportamento.

La mora credendi, di conseguenza, si verifica quando il creditore omette di cooperare con il debitore, ponendo in essere un contegno emulativo o un interesse egoistico a non ricevere la prestazione economica pattuita ad esempio (per continuare a lucrare gli interessi), o, addirittura, ad ostacolare l’esecuzione (ad esempio, distruggendo l’oggetto della prestazione) o non offrendo cooperazione dell’adempimento quando essa si ponga “necessaria in senso tecnico” ai fini del perfezionamento della prestazione, situazione ormai ricorrente anche nel settore assicurativo.

In effetti, il rifiuto da parte del danneggiato di un’offerta ricevuta, sperando di ottenere, con tale contegno, proposte migliorative in quanto le società di assicurazioni non intendono affrontare ulteriori contenziosi per parva materia (situazione che, in dottrina, R.Del Dies sanziona come mancata collaborazione del danneggiato nella fase di liquidazione del danno in linea con la Suprema Corte sezione VI-III ordinanza 19354 del 30/9/2016 e con la sentenza 3/5/2014 n. 171 della Corte Costituzionale in relazione alla necessità di razionalizzare il contenzioso inflazionato).

In conformità, Suprema Corte III sez. civile con sentenza n. 18940 del 31.07.2017 che ha sanzionato la mancata collaborazione del danneggiato-creditore in relazione agli artt. 1175 c.c. – correttezza e 1375 c.c. – buona fede e Cass. III sez. sent. n. 1829 del 25.01.2018. Agli artt. 1206 e seguenti con integrazione degli artt. 73-80 delle disposizioni di attuazione al codice civile, la legge ha disciplinato la materia in vari aspetti, ovviamente non esaustivi nel decorso del tempo.

Va evidenziato che il termine “mora” significa ritardo ed è espressione identica a quella usata per la mora del debitore (art. 1219 c.c.): entrambi i ritardi – anche se sostanzialmente diversi – prevedono una situazione che determina la mancata attuazione del rapporto obbligatorio (non definitiva perché presuppone la persistente possibilità di un adempimento tardivo).

La dottrina dominante e la giurisprudenza hanno sempre tenuto distanziate per ratio e consistenza, in aree diverse, la mora credendi e la mora debendi (istituto di maggiore consistenza pratica con ricorrente tutela giuridica) e, solo di recente, adottando, alla luce di pronunce della Corte Costituzionale, un’ attenzione di raffronto più equilibrato laddove il nostro codice del 1942, elaborato da giuristi di altissimo prestigio, aveva soddisfatto – per l’epoca – le diverse e più limitate esigenze.

Con il decorso del tempo nei rapporti tra le parti (creditore e debitore), prevalentemente antitetiche per il perfezionamento definitivo di un contratto o esposizione economica, si è incrementata notevolmente, per motivazioni di vario genere (entità o modalità di prestazioni e per ragioni non catalogabili in misura rigida) l’attenzione in ordine alla mora credendi in un crescendo di nuove situazioni, in special modo, nei contratti a prestazioni corrispettive.

Parte della dottrina (Falzea, Rubino, Perlingieri) e della giurisprudenza, in una più attuale visione, anche alla luce di un principio costituzionale riguardante l’assoluta parità delle parti in ordine alle reciproche obbligazioni, affronta le due posizioni in attenzione simmetrica laddove la dottrina tradizionale ha continuato a differenziare nettamente le due posizioni, considerando il comportamento del debitore come obbligo giuridico che costituisce il contenuto della posizione passiva mentre il dovere di cooperazione del creditore (artt. 1206, 1207 e 1208 c.c. – quest’ultimo con requisiti dettagliati per la validità dell’offerta) viene visto come un dovere accessorio, strumentalmente collegato alla posizione attiva ma estraneo al suo contenuto (D’Amico, Natoli).

Senza contare che la posizione del creditore è favorita anche in altre parti del nostro codice civile che prevedono – a suo favore – il diritto di recedere, per cui il debitore, in tali casi, non ha nessun diritto all’adempimento (cooperazione senza legittimo diritto).

A questa diversa visione della dottrina e della giurisprudenza (minoritaria) si affianca la teoria che ritiene che la norma sulla mora credendi debba essere letta alla luce dell’art. 1175 c.c. (norma da cui trae origine il concetto di “abuso del diritto”), secondo il quale sia il creditore che il debitore devono comportarsi secondo le regole della correttezza in quanto non è concepibile un rapporto obbligatorio in cui un soggetto (il creditore) abbia solo vantaggi mentre l’altro sia assoggettato solo agli obblighi (quindi portatore di un interesse legittimo e non di un diritto soggettivo).

In effetti, secondo tale orientamento – ripetiamo – minoritario, il creditore avrebbe il dovere (e non l’onere) di cooperazione al fine di facilitare l’esecuzione della prestazione e, in caso di mancata cooperazione, deve pagare i danni al debitore con le conseguenze di cui all’art. 1215 c.c..

Questo orientamento non trova allo stato ingresso nella tradizionale concezione, ma affronta le problematiche in un’ottica moderna e adatta alle diverse situazioni che, nell’originario codice, non potevano essere analiticamente previste in quanto inesistenti o di diversa sostanziale impostazione, quindi, soggette ad un naturale iter di sviluppo evolutivo.

Rebus sic stantibus, il criterio d’imputazione dell’atteggiamento omissivo del creditore – motivo della impossibilità della prestazione da parte del debitore – ha inquadrato, in dottrina, la configurazione dei contrastanti percorsi “mora culpata” e “mora inculpata”.

La mora inculpata, accettata dalla dottrina consolidata, limita la conseguenza della responsabilità del creditore nell’area di un “onere” con la conseguenza che la mancata cooperazione va vista nel concetto di rischio e non di responsabilità. Il difetto, immediatamente rilevabile, della mora “inculpata” consiste nel non tener conto se la mancata cooperazione del creditore sia stata volontaria o dovuta a negligenza e che “ogni aspetto, della mora sia, alla fine, in capo al debitore”.

Per quanto brevemente esposto, si rende necessario trovare una soluzione, che secondo l’estensore è quella di tener conto dell’apertura costituzionale nella valutazione delle due posizioni (creditoria e debitoria), integrando, sotto il profilo pratico il dato testuale dell’art. 1206 c.c. “senza motivo legittimo”, riteniamo volutamente previsto dal legislatore con pregnante edictum, idoneo a dare spazio alle nuove situazioni, inevitabili con il trascorrere del tempo per prevedibili contrasti del rapporto “creditore-debitore” (vedasi, ad esempio, negli elaborati rapporti contrattuali in materia di forniture di opere, nei contratti di lavoro, nelle attività turistiche e, seppur in termini più contenuti, nel settore assicurativo e del risarcimento danni), prevedendo la possibilità di adeguate ed aggiornate interpretazioni.

In relazione ai rapporti assicurativi, va evidenziato che sovente qualche creditore, nella deprecabile volontà di ottenere un plus anche minimo rispetto alla somma accreditata, esplica un atteggiamento ostativo che non integra il contenuto dell’art. 1206 c.c. ma che ha la finalità di indurre l’ente assicuratore a maggiorare l’offerta al fine di evitare prosiegui contenziosi, dal momento che il tempo dell’ulteriore trattativa vale come interruzione ex art 1217 c.c..

Si andrà, inizialmente, incontro a sicuri contrasti giurisprudenziali, di diversa portata soprattutto per l’approccio ermeneutico che il magistrato deve operare nelle varie susseguenti differenziazioni (superando le rigide categorie della mora “culpata” e “inculpata”), in linea con il nuovo orientamento costituzionale, di auspicabile cooperazione tra le parti, anche al fine di limitare la litigiosità ed i contenziosi in grande espansione, in un momento di carenza numerica dei magistrati.

Opinando in tal senso, l’espressione legislativa di cui all’art. 1206 c.c. consente di affrontare fattispecie a struttura aperta che danno spazio all’interprete, gravato, in tal senso, di un’indagine approfondita per avere una maggiore discrezionalità nel sondaggio del comportamento del creditore in relazione agli aspetti del caso concreto ed alla luce dei principi cardini di correttezza e buona fede, nel rapporto sinallagmatico.


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