LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE CON UN’ORDINANZA RILANCIA L’IMPORTANZA DELLO STRAININGdi Debora Alberici
La Suprema corte rilancia l’importanza dello straining. L’azienda risarcisce infatti il dipendente che viene scientemente stressato dal suo diretto capo.
A questa importante conclusione è giunta la Corte di cassazione che, con l’ordinanza 33428 dell’11 novembre 2022, ha accolto il ricorso di un impiegato.

La sezione lavoro del Palazzaccio ha affermato espressamente che rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’art. 2103 c.c., la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, o anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, quale condizione di lavoro lesiva della salute.

Ma non è ancora tutto. Con una ordinanza dettagliatamente motivata a gli Ermellini hanno ribaltato il verdetto di merito spiegando, in relazione allo straining, che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene (cd. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.

Nell’affermare questo principio il Supremo collegio ha inoltre ricordato che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorie nei confronti della vittima, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è ragione di violazione dell’art. 2087 c.c. Insomma sia lo straining che il mobbing devono essere scongiurati dall’azienda che è tenuta a preservare l’ambiente di lavoro.
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