Il timore di una crisi sistemica che si potesse scatenare partendo dal mondo delle criptovalute ha preso forma nei giorni scorsi con l’implosione di Ftx, uno dei più noti exchange di cripto esistenti e ancora non è chiaro dove arriverà l’onda lunga di quella che ha tutte le caratteristiche di una truffa colossale. Ma se l’immaginario collettivo è da sempre propenso a temere che ci sia una bolla nascosta nel mondo critpo, in grado di scatenare una nuova crisi finanziaria, sta montando solo ora la consapevolezza che ci sia un altro segmento di mercato che potrebbe contagiare il sistema e cioè quello dei grandi fondi di private equity.

È la previsione fosca di Salvatore Bragantini, economista, ex commissario Consob e uomo che di private equity ne sa qualcosa, visto che in passato è stato ai vertici di Sofipa, Arca Merchant, Centrobanca e I2 Capital Partners sgr ed è oggi presidente di Indaco Venture sgr. Bragantini ha scritto proprio su questi temi un suo editoriale nelle scorse settimane pubblicato sul quotidiano Domani, sottolineando il fatto che la crescita dell’inflazione e di quella dei tassi di interesse, che le banche centrali stanno manovrando al rialzo per combatterla, rischiano di innescare una recessione che a sua volta rischia di far scoppiare una nuova grande bolla finanziaria tipo quella che abbiamo già visto nel 2008.

«Nel mio scritto mi rifaccio soprattutto a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, dove le valutazioni alle quali i fondi si scambiano le aziende al di fuori della borsa sono ormai davvero scollegate dalla realtà e dallo stesso mercato di borsa. Sembra di vedere le squadre di calcio che si scambiano i giocatori ai prezzi più assurdi e si sostengono così i bilanci l’una con l’altra», ha precisato a Milano Finanza Bragantini, che ha aggiunto: «Ma a un certo punto qualcuno rimarrà con il cerino in mano e non ne farà le spese soltanto quell’uno, perché il sistema è interrelato, con le grandi operazioni a leva che sono finanziate sia dalle banche sia dai grandi fondi di direct lending e di debito, che a loro volta hanno tra i loro investitori altre banche e soggetti istituzionali. Non vedo gli stessi rischi in Europa e ancor meno in Italia».

Ma se è vero che in Italia non vediamo gli eccessi degli Usa, è anche vero che comunque anche in Italia i multipli di valutazione per le società oggetto di m&a da parte di fondi di private equity sono saliti a fine settembre 2022 a 12,7 volte l’ebitda dalle 12,2 volte di tutto il 2021, quando già si era visto un balzo dalle 10 volte del 2020, e sono tornati quindi ai livelli del 2018, e quindi ben al di sopra della media degli ultimi 5 anni a quota 11,2 volte. Lo ha calcolato Equita nel suo report Financial Sponsors’ Activity Monitor. Una crescita, quella dei multipli di private equity, che si confronta invece con il calo dei multipli di valutazione delle aziende quotate a Piazza Affari in discesa per il settore industriale a 5,2 volte l’ebitda rispetto alle 6,4 volte della media degli ultimi 5 anni, a 7,9 volte per il settore Tmt (da 9,3 volte), 8,4 volte per i consumi (da 10,9 volte) e 11,4 volte per l’healthcare (da 14,7 volte). Questa situazione, però, non è destinata a durare, perché da Equita spiegano che è fisiologico un gap temporale tra multipli di borsa, che sono in tempo reale, e multipli dell’m&a al di fuori del mercato. Quindi, insomma, queste valutazioni sono destinate a scendere.

Quanto però è da vedersi, perché i fondi di private equity e venture capital hanno dalla loro parte il fatto che siedono su un’enorme dry powder, cioé la potenza di fuoco accumulata a seguito delle rispettive raccolte fondi, arrivata per i fondi europei a quota 266,9 miliardi di euro a fine giugno, rispetto a una dry powder globale dei fondi di private capital (che includono anche quelli di debito, distressed e real estate) calcolata da Preqin in addirittura 3,6 trilioni di dollari. Ciò significa che i fondi hanno tanto denaro da spendere, denaro che non possono tenere inattivo per troppo tempo, quindi sono motivati a investire con un certo ritmo, sebbene siano legati a un obiettivo di rendimento che porteranno a casa al momento del disinvestimento, per non deludere gli investitori del fondo.

Da qui il circolo vizioso di valutazioni sempre più alte nel momento in cui le operazioni di buyout e di venture capital portano le aziende a passare di mano da un fondo a un altro. Certo però, soprattutto nel momento in cui ripagare i debiti diventa più difficile, perché lo scenario macroeconomico peggiora e i flussi di cassa diminuiscono, il rischio che il gioco si rompa aumenta. Con la conseguenza che le valutazioni delle aziende in portafoglio ai fondi possono subire drastiche diminuzioni.

Si tratta comunque di scenari estremi e che in prima battuta stanno riguardando solo il mondo dei grandi operatori di venture capital internazionali. L’esempio più eclatante è quello di Klarna, la scaleup svedese leader in Europa nel cosiddetto buy-now-pay-later che lo scorso luglio ha raccolto un round da 800 milioni di dollari che l’ha portata a una valutazione post-money di 6,7 miliardi, ben lontana dalla valutazione post-money di 45,6 miliardi di dollari toccata l’anno scorso dopo la chiusura del precedente round da 639 milioni di dollari. E infatti non a caso a farne le spese sono stati i conti dei maggiori finanziatori, come Silverlake e soprattutto Softbank, che con il suo Vision Fund 2 aveva guidato proprio il round del 2021. E infatti, Stephane Klecha, managing partner di Klecha & Co, advisor finanziario specializzato nel settore tech, frena. «Sul fronte delle raccolte per aziende tecnologiche, più che a una riduzione generalizzata dei multipli, vediamo una crescente selettività degli investitori nella ricerca di aziende in cui investire. Gli asset di qualità continuano ad attrarre interesse, mentre gli altri faticano a raccogliere. Negli ultimi mesi abbiamo assistito al rinnovato interesse delle large corporate per asset tecnologici. Il controllo della catena del valore è, infatti, tornato a essere un focus strategico. Le target ideali sono le aziende con le tecnologie più avanzate che riscontrano difficoltà nel go-to-market. Sono target ideali per le corporate che cercano opportunità di upsell e riduzione della dipendenza tecnologica da terzi».

Così, a parte il caso eclatante di Klarna, nella media Pitchbook ha calcolato che nei primi nove mesi dell’anno in Europa le valutazioni delle startup e scaleup, calcolate al momento dei disinvestimenti, hanno comunque ancora resistito, tenuto conto del fatto che si è passato da un 2021 in cui l’ambiente macroeconomico era favorevole, con tassi d’interesse bassi e inflazione bassa a uno con tassi di interesse in aumento, stagflazione e valutazioni di borsa in calo. È evidente però che in questo quadro sono mancate le ipo miliardarie degli unicorni e quindi non stupisce che il valore complessivo dei disinvestimenti dei fondi di venture capital da inizio anno sino a fine settembre sia stato di soli 33,6 miliardi di euro nei 9 mesi, con un calo del 70,4% rispetto ai 9 mesi del 2021 e che, nel solo terzo trimestre, il valore delle exit sia sceso a soli 2,8 miliardi di euro, una cifra più basse del 95,3% dal terzo trimestre 2021.

«Ipo a livelli minimi e un mercato del debito più costoso e selettivo sono risultato dell’attuale, straordinario contesto di mercato. Il mercato dei capitali privati, sebbene diventato a sua volta molto competitivo, rimane caratterizzato da un trend positivo», ha detto infatti SIlvia Viviano, Head of Alternative Capital Markets di Unicredit, che ha aggiunto: «Sono stati raccolti 200 miliardi di dollari dall’inizio del 2022 a livello globale attraverso private placements e il capitale disponibile rimane ancora significativo. Inoltre, l’abilità da parte di investitori strutturati a trovare soluzioni ad-hoc secondo le necessità specifiche di ciascuna società ha supportato questo tipo di operazioni. In un contesto volatile e penalizzante da un punto di vista valutativo, strutture caratterizzate ad esempio da ritorni garantiti attraverso il pagamento di dividendi o protezione del capitale investito con multipli garantiti all’uscita stanno trovando sempre maggiore interesse sia da parte degli investitori che delle società in cerca di capitale». (riproduzione riservata)Fonte: